Ovvio, Banale e Non Detto: Un Viaggio Semantico

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L’ovvietà, la banalità e il non detto sono i tre sostantivi che da sempre, tanto sul piano semantico quanto su quello empirico, scandiscono la trama su cui si impernia il dinamico rapporto tra lo stupore della novità ed il petulante rinnovo di quel che è già noto. Essenziale per la trattazione che si intende porre di seguito è puntualizzare il significato originario che sta alla base dei vocaboli sopra menzionati. A tal proposito, si ritiene opportuno porre semplici, ma impattanti, domande, quali: “quando si inizia ad adoperare il termine “ovvio”? Cosa è ovvio, cosa banale?

È radicata la consapevolezza di ciò che occorre per rendere effettiva quella determinata condizione per cui si possa parlare di fattispecie banale, quest’oggi di prioritaria importanza guardando ad una delle più note ed iconiche opere riguardanti il fenomeno dell’olocausto nazista, quale “la banalità del male” di Hannah Arendt: costituirebbe atteggiamento virtuoso ricordare che la base fondante di ogni cosa che si possa definire banale è sempre violenta, tremendamente pericolosa, poiché l’atteggiamento dell’uomo banale è di colui che meccanicizza il sapere, privandolo della sua primitiva aurora. In tal senso, non solo il male gratuito e meccanico dei nazisti a danno delle vittime ebree, ma anche quello di chi “banalizza”, dunque discute di qualsivoglia argomento pensando che la sua contezza intellettiva sia in quel momento del tutto lineare.

Si pervenga allora ad un altro sostantivo, accostabile non per significato, quale “ovvio” o “ovvietà”: ovvietà è null’altro che una prassi della quale si detenga un grado di contezza sufficiente, tale da pensare che l’oggetto della considerazione che si pone in essere sia ben conosciuto, scontato diremmo; si riporta di seguito la definizione del termine, presente nel vocabolario: dal lat. obvius, propr. «che va incontro», o “che si presenta spontaneamente e facilmente al pensiero, all’immaginazione, come cosa naturale, ordinaria, evidente” o “che risulta di un’evidenza immediata e senza possibilità di equivoci sul piano dell’interpretazione o del giudizio”. Conformemente al primo significato presentato, si desume che anticamente il vocabolo “ovvio” rinviava ad un rapporto che poneva come elemento imprescindibile della sua attuazione l’incontro tra l’oggetto della valutazione antropologica e l’esperienza della persona: uno schema noto soprattutto ai Greci in merito al metodo su cui era basato il momento della visione dell’uomo, pensata come proiezione di una luce, e il riflesso della medesima, direttamente proveniente dalla cosa vista.  Allora, punto focale della questione che si vuole vagliare è esattamente connesso alla generalizzazione semantica che può essere compiuta relativamente all’uso indistinto dei termini “ovvio”, “banale” e “non ovvio”. In tal senso, si pensa sia necessario focalizzare l’attenzione anzitutto sulla dicotomia intercorrente tra i primi due vocaboli estrapolati, giacché una loro attenta osservazione costituisce il motivo che argomenta la delucidazione di quello che si può definire “non ovvio”.  Il senso della marcata differenza che sussiste fra i tre sostantivi prima indicati deve essere rintracciata nella storia che lo caratterizza: la ragione di questa affermazione avviene sulla base di valutazioni aventi ad oggetto lo sviluppo progressivo del pensiero, cui associare usi e costumi della molteplicità dei tempi e dei popoli. Del resto, il concetto di ovvio cos’è se non un’evidenza che si riconosce essere uguale per l’intera umanità che la analizza e ne carpisce la costante? È quel che accade, ma non senza che ciò richieda del tempo per adempiersi. Nulla delle cose umane è dal principio assolutamente ovvio, giacché l’elemento che muove l’uomo verso la conoscenza non è una scienza aprioristica, bensì la curiositas, vero momento di poesia che anima il genere umano. Ciò che interessa trattare in merito all’itinerario di percorrenza della parola ovvio è proprio la sua “appartenenza” al genere umano. È infatti indubbio che tutto quello che appare, tutto ciò che è fenomenico diviene immediatamente insieme di ovvietà; diversamente si articola tale costruzione, storicamente parlando, quando, entro la poliedricità delle relazioni umane, emergono, forse inevitabilmente, delle differenze. A cosa si sta alludendo? Al fatto che, stando a quanto è successo fin dall’epoca più antica dell’umanità, si sono dipanate distanze concettuali non tempestivamente riducibili, nella consapevolezza per cui esse ancora persistono: è il motivo che induce a pensare ad una diversa declinazione del termine ovvietà, intesa come svelamento di assunti derivante dalla brillantezza di certi individui, pronti a mostrare al resto del mondo almeno uno stralcio di apparenti evidenze: un certo Socrate una volta ha utilizzato l’aforisma che accomuna, nel senso più ovvio, tutt’altro che banale, l’intera umanità: so di non sapere. Eppure, il filosofo in questione non si è vantato della sua sapienza, della saggezza che ha pervaso i suoi discorsi, perché la saggezza è chi, pur avvertendo qualcosa che lo distingue dalla moltitudine, non si pone con alterigia, con autorità a chi non avverte subito quella dimensione, anzi accoglie l’altro per proseguire armoniosamente verso il logos, ragione universale. È indiscutibile che la moltitudine sopra indicata, secondo quello che la storia suggerisce, percepisce solo l’ovvietà più immediata, quella più netta; distinto, elitario per naturale tendenza, è l’atteggiamento dell’acuto osservatore, il quale è intento ad offrire ovvietà prossime a configurarsi come collettive: lo sforzo degli intellettuali è sempre stato questo.

Nel punto qui raggiunto della riflessione, emerge una necessaria constatazione, per cui il non detto è ciò che si divide tra quel che ancora deve essere enunciato -unitamente ad una valutazione di carattere meramente temporale- e quello cui la conoscenza non può tendere. Particolarizzando la destinazione della presente elaborazione, sarebbe lecito accettare, a seconda della soggettiva visione, che il non detto sia semplicemente l’oscurità che la tensione umana alla conoscenza vuole illuminare, dovendo a quel punto pianificare l’aspettativa che altro sapere possa essere esteso attraverso la vista intesa in senso greco, quale quella dell’eidein.

Si spera che si radichi la distinzione tra ovvio e banale, incentrandosi su quell’ovvietà relativa, quei frammenti di logos universale che alcuni avvertono, assumendo un punto di vista comprensibilmente variegato circa il fascino del non detto. Oggi l’uomo è tenuto a ricordare il momento in cui Tiresia si è dato la morte: quella serie di attimi nei quali la saggezza si è data all’uomo, poiché Edipo ha dimostrato forse di possederla quando, proprio alla domanda sull’uomo, ha saputo rispondere correttamente.  Oggi si vuole che Tiresia possa compiere nuovamente questo gesto, solo se la moltitudine dimostrasse di esserne degna; solo se, come ha detto Nietzsche a proposito dell’encomiabile pervicacia di Talete, qualcuno possa provare a non ancorarsi alla scienza, ma guardare oltre con la fantasia, essenza del progresso, entro quella che in modo gradevole piace inquadrare come tetraktis, quella pitagorica, l’armonia delle sirene: quelle che brillano non in quanto tali, ma per il loro movimento, come l’uomo.

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Vincenzo Pio Riccio
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