Corriamo. Nella vita di tutti i giorni ci affaccendiamo, tra una notifica di una mail e lo squillo di uno smartphone. C’è chi esce da un ufficio, chi dal panificio dove lavora; oppure c’è un pendolare che si alzerà all’alba per prendere il primo treno utile che lo porterà in tempo a lavoro. Che sia una grande metropoli, o una piccola città di provincia, tutto scorre nell’immediatezza di un presente permanente. Tra il rumore stridente di un treno sui binari, la nostra canzone preferita nelle cuffie nel tragitto di ritorno a casa ed il brusio di sottofondo del traffico; il tempo, scivola impetuoso. O, almeno, a qualcuno di noi capita di percepirlo così. Scorre veloce e noi stentiamo ad inseguirlo o afferrarlo. Ci fa quasi paura sprecarne un briciolo. Il tempo è improvvisamente diventato la risorsa per noi più preziosa.
Eppure, in questa maratona ciclica, sovente non esitiamo ad estraniarci, a viverci dall’esterno. Come un marinaio che si ritrova senza la propria carta nautica, in balia delle onde, ci lasciamo trascinare. Nella speranza di raggiungere l’approdo sicuro più vicino. Di sopravvivere. Per poi ripartire, il giorno seguente, senza meta. Eppure, non di rado, a chi riesce a divincolarsi da questa inerzia, può capitare di chiedersi: “sto facendo davvero la differenza? Quali sono gli obiettivi e gli scopi che intendo raggiungere? Cosa è questa sensazione di confusione, o in certi casi, di impotenza?”
Diamo un po’ di contesto
Nel tentativo di dare una risposta a tali interrogativi, non possiamo esimerci dal contestualizzare il mondo in cui oggi siamo situati. L’età contemporanea o post-moderna, volendola definire con un termine mutuato dalla relativa corrente filosofica, si affaccia con la fine della Rivoluzione Francese ed il venir meno dell’utopia illuminista dove “Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro”. Laddove solo ragione e la razionalità possono salvare l’uomo dalla propria limitatezza. Dopo la Prima e la Seconda Rivoluzione industriale, l’uomo incomincia a scoprirsi fragile. Proprio quell’uomo capace di dominare tutto attraverso la ragione e l’ottimismo dettato dal progresso tecnologico si scopre incapace di guidare la civiltà verso una nuova età dell’oro. Tra i primi, lo stesso Freud renderà conto al panorama scientifico dell’epoca, che l’ideale escatologico illuminista e positivista della razionalità salvifica dovrà fare i conti con pulsioni e destini fuori dal nostro controllo. Al termine delle due Guerre mondiali si sgretoleranno tutti gli ideali, o perlomeno, quelli positivi. Arriviamo così all’epoca post-moderna.
Ed oggi dunque, cosa è cambiato? Come possiamo definire la condizione dell’uomo e la percezione di sé in relazione a ciò che accade al di fuori, nel flusso della storia?
Come è cambiata la percezione di noi stessi oggi
Potremmo dire che esiste un comune denominatore nella percezione esistenziale che l’uomo ha avuto di sé nel corso dell’era pre-moderna, moderna, e almeno fino agli anni 70 del Novecento. “L’idea di contare qualcosa”. La sensazione di poter guidare la propria esistenza verso un fine. Di sentirsi soggetto storico. Anzi individuo. Con il suo portato di valori, emozioni, passioni e sogni. Anche negativi, come nel caso delle due guerre. Di avere un peso storico. Un obiettivo a lungo termine ben visibile che lo motiva e lo traina da dentro. Intrinseco. Non Condizionato da altre logiche.
Ma anche prima, risalendo fino ai suoi stadi più primitivi, davanti ad un mondo impervio, l’uomo ha dovuto ingegnarsi per poter sopravvivere. Inventare, trovare i mezzi per dare organicità ed armonia alla propria esistenza. Il fuoco, la ruota, gli dei e la cosmogonia, il linguaggio.
Oggi non è più così. O perlomeno, questa è la considerazione che intendiamo proporre al lettore.
Perché è cambiata la prospettiva esistenziale e qual è il ruolo dell’iper modernità
Con l’inizio dell’era contemporanea e l’avvento dell’iper-modernità digitale, tutto diventa possibile. Possiamo esplorare un luogo senza necessariamente sforzarci di girare con una cartina, ma usare il nostro smartphone; possiamo visitare una mostra d’arte senza andare in un museo. Ma possiamo anche ripristinare alcune funzioni cerebrali grazie alle nuove neurotecnologie. La questione qui non riguarda tanto un rifiuto ed un rigetto intriso di moralismo anti-tecnologico. Il punto centrale è che l’uomo sta rinunciando al proprio ruolo di costruttore di esistenza. Ma soprattutto di “senso”, nella sua accezione appunto esistenziale. Se la tecnologia e le scienze possono tutto, o possono provarlo e spiegarlo, perfino replicare gli attributi conversazionali dell’essere umano (vedi i chat bot); che senso hanno i conflitti, le contraddizioni e le divergenze di ideali? Se il nuovo equivale ad una nuova innovazione in campo tecnologico, un nuovo telefono, un nuovo smartwatch, dove si colloca l’uomo? Che senso ha l’idea stessa di progettualità futura. Questo sia in una logica collettiva, di missione sociale, ma inevitabilmente individuale.
Seguendo questa logica, potremmo dire che sono cambiate le risposte alle domande esistenziali connaturate all’animo umano. Non è più necessario partire alla scoperta del proprio demone interiore. Tutto è già possibile, tutto è già prevedibile e spiegabile. Se la missione dell’uomo non è più quella di viversi nella storicità e nel senso del tragico1, proprio in quanto “essere” situato in contesto storico, qual è la missione che gli appartiene oggi, se non quella di acquisire le competenze necessarie per rispondere alle esigenze del mondo. Acquisirle ed aggiornarle.
Dunque, non si tratta più di rispondere alla “sete di senso”, strumento principale di organizzazione dell’esistenza sin dalle prime domande sull’origine del mondo. Si tratta di dotarsi di tutti i mezzi utili per performare al meglio con le richieste esterne.
L’uomo si svuota così della sua qualità attiva principale. Reagisce alla richiesta di competenze necessarie. Usando un termine proveniente dalla letteratura fantascientifica e poi ripreso in sociologia, l’uomo si fa modulare. Acquisisce competenze come fossero moduli. Rinuncia su richiesta, alla propria unicità, alla missione interiore; si disgrega nella propria armonia per rispecchiare e conformarsi alle richieste eterodirette della società. Attenzione parliamo di competenze anche in senso più ampio, non solo lavorativo. Parliamo cioè di una serie di comportamenti per “competere” letteralmente nella società. Faccio qualcosa perché sono condizionato dalla crisi economica, dai giudizi della società, dall’immagine che gli altri hanno di me. Da Intrinseco ad Estrinseco. Da Soggetto ad oggetto o strumento. E così si svuota, come si svuota il senso delle relazioni. In fondo, cosa ci distingue dall’essere inanimato se non il fatto di essere impregnati di valori, ideali e relativi vissuti ed aspettative.
Cosa possiamo fare?
Immaginiamo allora l’uomo primitivo che, impotente difronte ai fenomeni naturali si interroga, sfodera il suo principale strumento. La creazione di senso per limitare le infinite spiegazioni. Costruisce la propria mitologia, come i greci ed i romani. Crea senso per governare la complessità e l’imprevedibilità. E così con il cristianesimo. Periodo nel quale l’uomo delega ad un’entità esterna l’idea stessa di salvezza, ma conserva la sua missione di buon cristiano in attesa del giudizio superiore.
Immaginiamo ora noi stessi oggi. Privi di questa abilità. Non per forza privati perché il mercato ce lo impone. Il punto non è questo. Il punto è che il periodo storico, il fatto che il progresso può spiegarci tutto, o quasi, non rende più necessaria l’abilità stessa. Risulta obsoleta.
In una società rapida, ancora più complessa e fragile. Ancora più libera e piena di stimoli, sentirsi, confusi, svuotati, finanche impotenti, diventa un vissuto dei tempi, in linea persino con essi. Aderente alla realtà storica che abbiamo costruito. Se questo ci può consolare, in fondo, condividiamo un pò tutti questa sensazione. Il punto nodale, la domanda esistenziale diventa quindi “che tipo di società abbiamo costruito? Quanto è sostenibile e su misura rispetto all’organicità e la storicità che caratterizza l’umano in senso più generale?
Quale dunque la soluzione? A nostro avviso, tornare a porci domande su chi siamo e cosa facciamo; quale scopo vogliamo avere nella vita; dare un senso e finanche sforzarci di farlo; ritagliarci dei momenti e degli spazi per pensare al passato e ritrovare lo slancio futuro. Ritrovare la temporalità della vita, evitando di lasciarci risucchiare da quell’inerzia e dalle promesse immediate di un eterno presente che non lasciano spazio al potere generativo interiore del pensiero.
- vedi voce dell’enciclopedia https://www.treccani.it/enciclopedia/tragico_(Enciclopedia-Italiana)/ ↩︎
Bibliografia
Bauman, Z. (2000). La solitudine del cittadino globale. Feltrinelli. ISBN 8807102870
Benasayag, M. (2015). Oltre le passioni tristi. Feltrinelli. ISBN 9788807887043
Benasayag, M. (2019). Funzionare o esistere?. Vita e Pensiero. ISBN 9788834339121
Psicologo, con esperienza maturata in ambito organizzativo. Ha conseguito la laurea in psicologia del lavoro con una tesi sul work-life balance. Co-fondatore de Il Controverso. I suoi scritti si rifanno spesso alla saggistica e trattano di sociologia, criminalità organizzata, psicologia.
"Scrivere è come fare un viaggio dentro se stessi. Si scoprono paesaggi sconosciuti e si incontrano persone inaspettate."