27 agosto 1950 muore Cesare Pavese, il poeta langarolo. Il ricordo di Franco Ferrarotti

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Franco Ferrarotti, sociologo di fama, ha scritto un bel ricordo di Cesare Pavese nel libro “Al Santuario con Pavese”, storia di un’amicizia, Edizioni Dehoniane Bologna.
Ne esce un ritratto vero del grande scrittore e poeta piemontese che il 27 agosto 1950 si tolse la vita in un albergo – Hotel Roma- nella sua Torino.
Pavese era refrattario alla politica ed alla vita mondana: consumava il suo tempo nel “mestiere di scrivere”, nel culto del mito e della letteratura.
Grazie a Pavese abbiamo conosciuto la letteratura americana in Italia, perché è stato un traduttore per “l’Einaudi” -ove lavorava assiduamente- dei romanzi americani.
Ferrarotti ce lo descrive, come taciturno, spilungone e “poeta langarolo”, perché nelle Langhe ha vissuto la sua adolescenza e giovinezza.
Scrive Ferrarotti: “Ho sempre considerato Cesare Pavese un mio fratello maggiore. Fin dal primo momento, quando un nasuto spilungone magro magro, la faccia ossuta, quasi equina, e la sigaretta pendula dal lato sinistro della bocca, mi è apparso davanti. Ci sono incontri in cui misteriosi enzimi planano da una persona all’altra legandole, immediatamente, in una sorta di patto clandestino per la vita. Una volta ho pensato che si trattasse della comune matrice campagnola, fatta di odori, sguardi, gesti e lunghi silenzi. Lui, langarolo; io, mezzo monferrino”.
Ma ci spiega Ferrarotti che cosa sono le langhe per Pavese: ”Solo chi abbia vissuto le settimane e i mesi di vento e solitudine può capire che cosa siano le langhe. Scrive Pavese nel 1936: Non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il respiro e il suo sudore”.
Pavese ha avuto il culto del mito e del divino, ma non in senso religioso, cercandolo dall’alto, bensì dal basso, nelle campagne, nelle langhe: il divino non va ricercato nelle alte sfere delle idee iperuranie, ma nella naturale esperienza quotidiana. In lui, il contadino langarolo vinceva sempre sull’intellettuale.
Era uno studioso di Vico ed aveva capito che la Storia ha un progetto, un cammino necessario che si compie per un disegno divino che ne delinea tappe, eventi concatenati, ma non in una logica deterministica e causale, bensì con l’afflato dello Spirito di Dio che finalisticamente guida le azioni degli uomini.
Questo poeta taciturno, questo scrittore che aveva il culto della collina, delle campagne, che amava riposarsi nell’erba intrisa di rugiada, non è stato amato molto dalle donne, con le quali non ha purtroppo avuto sempre relazioni felici, forse anche per una probabile impotenza.
Ma è stata la fatica che si concretava nell’amore per la letteratura e la poesia, la sua compagna di vita.
Ha scritto poesie preziose.
Dopo essermi scoraggiato di ogni cima più alta, dopo aver perduto ogni rispetto di me stesso, ridotto a un povero straccio umano senza più forma, per un istante accanto a te ho rivissuto la fiamma che mi accendeva negli anni più belli: povera fiamma che sta per spegnersi, che, come te, è una mia illusione di cui non sono degno: pure m’ha riacceso e sorrido” (11 agosto 1927).
Ci ricorda Ferrarotti che anche lui fu cercato da Pavese la notte in cui si tolse la vita, con telefonate per le quali non ebbe risposte.
Pavese chiamò anche altri suoi amici ed allievi, ma quella notte nessuno lo ascoltò e si compì la tragedia: aveva solo 42 anni.

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Biagio Riccio

Avvocato, dal 1993 esercito la professione forense nel tribunale e nel Distretto di Corte d’Appello di Napoli. Avvocato civilista dall’anno 2008, patrocinante in Cassazione. Fondatore dell'Associazione Favor Debitoris.

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