La Bruyère: la mutevolezza dell’uomo

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“Nell’umore, nei costumi, nelle maniere della maggior parte degli uomini tutto è straniero”. Con questa espressione, tratta dal suo capolavoro “I caratteri”, il filosofo moralista francese Jean La Bruyère mette in evidenza un’osservazione importante dell’analisi dei comportamenti umani: alla maggior parte degli uomini nulla è familiare, tutto è sconosciuto e distante, nell’ambito delle proprie abitudini, dei propri comportamenti e nello stato d’animo che li abita. L’autore fissa attributi peculiari che li contraddistinguono, descrivendoli come iracondi, improntati all’ira; immusoniti, imbronciati; avari, egoisti, presi da se stessi, ma al tempo stesso sottomessi e dipendenti dal giudizio altrui…

Ne specifica tuttavia che alla nascita avessero tutt’altra natura: “uno che era nato gaio, tranquillo, pigro, magnifico, dotato d’un fiero coraggio, lontano da ogni bassezza”.

Caratteri completamente opposti, che risaltano la pacatezza e l’imperturbabilità che qualificano l’uomo non influenzato da agenti esterni o sovrastrutture.

Come spiegare questo rovesciamento complessivo della natura umana?

La Bruyère trova le cause di questa mutevolezza di condotta nei bisogni della vita, nelle necessità e nelle posizioni (presumibilmente sociali) che portano l’individuo a volere sempre di più risaltare la propria posizione, o addirittura sopraffare gli altri.

L’uomo in se stesso non può essere designato e tracciato con precisione, siccome troppo esposto all’alterazione e allo sconvolgimento di fattori esterni e a lui “stranieri”, che ne modificano l’andamento, i comportamenti e il suo modo di essere.

Di conseguenza l’autore conclude la sua riflessione sostenendo che l’uomo non sia né chi è, né chi pare di essere.

La natura dell’uomo è connaturata al fenomeno del cambiamento costante, che si viene esplicitando di volta in volta in base alle situazioni o alle relazioni che si trova ad affrontare, e perciò, non risulta mai lo stesso. Questo fa emergere un lato di sé di pura apparenza, della mutevolezza melanconica che lo contraddistingue.

Coerentemente al suo stile innovativo, La Bruyère riesce a fotografare e fissare uno dei caratteri specifici dell’uomo, esattamente la sua “instabilità”, e il suo essere soggetto al giudizio degli altri o a condizioni sociali che lo portano a cambiare, a volte radicalmente. L’uomo, dominato dall’egoismo, dall’interesse personale e dalla distanza con la realtà, vive di negatività. Nei suoi vari e scambievoli modi di affrontare le cose, l’autore tenta di fissarne i caratteri (rifacendosi a Teofrasto), impiegando gli aforismi che compongono il suo testo, in modo anche da offrire ai lettori la sua interpretazione della verità, per segnalarli a coloro che si rispecchiano in essi.

La Bruyere, in conclusione, si configura come un passaggio imprescindibile della “moralistica” europea che, come direbbe Giovanni Macchia, “frantuma in una infinità di modi la società francese”.

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