A volte ci metto tempo a guardare i film. Ci metto tempo a convincermi a guardarli. Perfect Days mi veniva consigliato ovunque, da chiunque.
L’ho visto solo di recente, sprofondata nelle poltrone silenziosissime del Cinema Godard. A volte, bisogna aspettare lo stato d’animo corretto per guardare un film ed avere la certezza di poterselo godere.
Oggi, Perfect Days – di Wim Wenders – è il film che vi racconto.
Se ancora non avete avuto modo di guardarlo, vi fermo qui: andate al cinema, e poi tornate a leggere.
Wim Wenders e Kōji Yakusho
Perfect Days doveva essere un documentario su The Tokyo Toilet Project (ne vediamo sempre la scritta quando il protagonista Hirayama ci volta le spalle), ossia su un progetto di riqualificazione urbana dell’area di Shibuya che – dal momento del suo lancio – ha fatto costruire e gestisce circa 17 bagni pubblici di design.
La società aveva affidato il progetto-documentario a Wim Wenders che, però, si discosta dall’idea originale per raccontare un estratto di vita di un uomo, Hirayama, che all’interno di The Tokyo Toilet è un semplice addetto alla pulizia.
Il racconto di Perfect Days potrebbe apparire semplice, e in un certo senso lo è. Seguiamo Hirayama per alcuni giorni, di lavoro e di riposo, nella liturgia delle sue giornate. Si sveglia al suono della ramazza di una portiera, si lava i denti e si fa la barba, innaffia le talee di un albero che raccoglie da un santuario, beve un caffè in lattina e va a lavoro in auto, ascoltando audiocassette di Lou Reed e The Animals. Inizia a lavorare, puntuale e accurato, con una dedizione che a Takashi (il collega giovane) appare inspiegabile e sproporzionata rispetto a un lavoro tanto umile. Fa una pausa pranzo nel giardino di un santuario (ho cercato di localizzarlo su Google Maps, ma sembra che Shibuya sia più grande e con più templi di quanto pensassi: è stata una ricerca infruttuosa). Riprende a lavorare. Poi torna a casa, posa l’auto e prende la bicicletta. Va a giorni alterni ai bagni pubblici per fare un bagno, fa passeggiate in bici, va a cena nel solito piccolo posto nella metropolitana di Shibuya. Torna a casa, legge fino ad addormentarsi. La domenica va alla lavanderia a gettoni, compra un nuovo libro e un nuovo rullino, ritira le foto della settimana precedente e si concede una cena. E via di nuovo. Quasi senza proferir parola.
La ritualità di questa routine viene interrotta da piccoli eventi: un bambino smarrito nel parco di Ebisu; l’accompagnare a lavoro Aya, la fiamma di Takashi; la visita inaspettata della nipote Niko, fuggita da casa; la cena del giorno libero presso il locale sospeso nel tempo di Mama; l’incontro con l’ex-marito di quest’ultima, malato di tumore.
Wenders ci accompagna, e con lui ci accompagna Kōji Yakusho che dà vita ad una interpretazione straordinaria di questo personaggio, attraverso una decina di giorni di esistenza di qualcuno di cui non sappiamo né il passato, né i pensieri.
Hirayama
Hirayama, in giapponese, si scrive nella versione più diffusa con due kanji. 平 che significa pacifico, placido, sereno; e 山 che significa montagna ma anche tomba, e anche tempio, santuario (nella cultura giapponese, i monti sono abitati da kami e da spiriti, sono luoghi di connessione tra il mondo umano, quello ultraterreno e quello divino). Letteralmente, il nome significa montagna serena.
Non è un caso se il “luogo” di Hirayama, tra tutti quelli che vediamo, sia quello dove trascorre la pausa del suo pranzo. Un tranquillo santuario immerso nel verde, su un colle, e ombreggiato da un largo albero. Da cui ogni tanto Hirayama raccoglie un virgulto.
Quando porterà lì la nipote Niko, quest’ultima gli chiederà se l’albero sia un suo amico. Durante la passeggiata in bicicletta, Niko gli racconta che la madre, la sorella di Hirayama, dice che lo zio “vive in un altro mondo”. Hirayama, con un sorriso più aperto del solito, osserva che in un certo senso è così, che “ci sono tanti mondi, dentro lo stesso mondo”.
Hirayama e Niko nel giardino del santuario – fotogramma dal film
Hirayama vive come gli spiriti benigni e le divinità sonnolente, consapevole della maniera con cui la realtà si stratifica e in pace con tale consapevolezza.
Il Ma: Elogio del vuoto
La filosofia tradizionale orientale appare persino comprensibile all’osservatore occidentale, ma difficilmente afferrabile. Un concetto giapponese ben innestato nella cultura locale e quasi estraneo a quella occidentale è ad esempio il concetto di Ma. Il Ma – comune a buddismo, taoismo e anche alla tradizione shintō – è l’espressione dello “spazio vuoto”, “intervallo”, “pausa”. In questo concetto, lo spazio vuoto ha un senso in sé stesso, deve esistere esattamente com’è per bilanciare la pienezza del mondo.
Insomma, un vuoto non inteso come assenza, ma categorizzato come essenza.
Tokyo, nel suo sovraffollamento di strade e grattacieli, appare sbilanciata fin quando non compare un parco, un santuario, un rettangolo di spazio verde, un bagno pubblico semivuoto, e le toilette pubbliche che diventano quasi intime. È in questi luoghi, in questi “intervalli” che si muove Hirayama. Ed è lui stesso un intervallo, un bilanciamento e un completamento.
L’abbraccio alla sorella, unica vera connessione fisica che vediamo nel film, è l’immagine di un Tao (yin nero, yang bianco) che si completa.
Il tema del Ma è ripreso anche formalmente, con riprese lunghe e fruscianti, valorizzando il tempo e consentendo di soffermarvisi. I tempi sono quelli di un cinema a cui ci siamo disabituati, dove la macchina da presa diventa un occhio che osserva fino alla ruga più sottile di un volto addormentato.
Ed è per questo motivo che Perfect days deve essere visto fino all’ultimo secondo. Compresi i sempre tralasciati titoli di coda. Parfect days ci dona un assaggio di Ma da assorbire, da respirare. In chiusura alla lista di nomi e ringraziamenti, Wim Wenders ci saluta con una parola giapponese, tra le tante che bisogna tradurre con una perifrasi: 木漏れ日, komorebi, la luce che filtra tra gli alberi, dove le ombre sovrapposte esistono nel solo istante, nel singolo intervallo di tempo.
Cambiamento e Variazione
Mentre osservano se le ombre – quando sovrapposte – diventino più scure, Hirayama riflette che deve per forza essere così, che sarebbe assurdo se non cambiassero. Il tema del cambiamento percorre tutto il film: non un cambiamento inteso come rivoluzione, un passaggio o un moto da cui non si può tornare indietro. Bensì un cambiamento inteso come variazione. I giorni di Hirayama, abitudinari e ben scanditi, di cui vediamo un estratto, assumono un significato non nella tensione ad un qualche tipo di metamorfosi, ma nelle piccole variazioni quotidiane che li rendono uno diverso dagli altri. Sono queste piccole cose – un incontro, una visita inattesa, ascoltare una cassetta con una ragazza quasi sconosciuta – che, innestandosi nella vita di Hirayama, la fanno fiorire.
Con il tema della sovrapposizione, si ritorna anche al tema del mondo composto da tanti mondi. Ogni incontro di Hirayama è una forma di sovrapposizione. A volte con spiriti affini, spiriti benigni del monte-albero-santuario: l’anziano barbone che tenta di diventare un albero, o la donna che pranza in maniera composta nello stesso giardino. A entrambi, Hirayama fa un brevissimo e muto cenno di saluto: appartengono allo stesso mondo. Altre volte Hirayama si confronta con i giovani, di cui si prende cura come con i germogli dell’albero: nell’ordine, il bambino smarrito, Takashi, Aya, Niko. La loro giovinezza li lascia ancora in uno spazio confuso tra i mondi sovrapposti: Aya si commuove al suono delle audiocassette, Niko fugge da casa (che ci viene suggerita agiata) per tuffarsi nel mondo dello zio, portando con sé la macchina fotografica datata. Takashi, che dà un numero ad ogni emozione e il cui mondo è solo apparentemente più delineato, è pur sempre una sorta di folletto quasi shakespeariano, incauto ed individualista, ma capace di farsi amare da un ragazzino disabile e assecondare dal suo silenzioso mentore.
Takashi, Hirayama, Aya in auto – fotogramma dal film
Ombra, d’altro canto, è una parola ricorrente. Ogni notte, mentre Hirayama si addormenta, noi vediamo una serie di ombre: tra le prime, letta forse sul romanzo di Faulkner, c’è un kanji che i sottotitoli ci traducono in “ombra”. Man mano che il film progredisce, le ombre del dormiveglia diventano sempre più nitide, sempre più simili alle fotografie in bianco e nero chiuse nelle scatole. Eppure, mentre prima riuscivamo a intuire le vaghe forme di Aya, o di qualcosa vissuto durante il giorno, adesso le immagini nitide ci appaiono completamente oscure. Forse sono ricordi? Più nitidi perché indelebili?
La tecnologia e il dualismo forma-sostanza
Il tema del supporto tecnologico ricorre, soprattutto nel confronto con queste giovani donne. Hirayama sembra rimasto indietro nel tempo: ascolta audiocassette, legge vecchi libri, usa una fotocamera analogica a cui ogni settimana cambia il rullino, non sa cosa sia Spotify.
Personalmente, mi sono convinta che il tema della tecnologia non sia stato inserito al fine di sottolineare un estraniamento di Hirayama rispetto al tempo che scorre, al mondo che si evolve (del resto il suo, di mondo, è ancora quello del Giappone fatto di spiriti e alberi divinità).
Penso invece che sia stato inserito per introdurre un discorso più ampio, che abbraccia la vita stessa di Hirayama: un discorso sulla forma e sulla sostanza.
Che sia su spotify, o cantata dalla voce di Mama o su una audiocassetta, la musica è sempre musica. Cambia solo il supporto. La forma assume tanti aspetti, la sostanza non cambia.
Stessa cosa, la fotografia. Che sia attraverso lo smartphone o dalla vecchia fotocamera, Hirayama e Niko stanno scattando la stessa foto, osservando lo stesso albero.
Persino il lavoro di addetto alle pulizie non è che una forma: per quanto disprezzato da Takashi e dalla sorella, Hirayama vi si dedica con una costanza che lo eleva. Non è diverso da qualunque altro tipo di lavoro: è un mezzo per garantire qualcosa di necessario. Cosa sarebbe, una toilette pubblica, senza il lavoro di Hirayama? Pur nella coscienza del disprezzo (se non disgusto) generale, l’etica lavorativa, la dignità del lavoro e del lavoratore non vacillano. La sostanza prevale, nella vita di Hirayama, rispetto alla forma.
Il Pianto e il Riso
L’interpretazione di Kōji Yakusho ha valso all’attore il riconoscimento della miglior performance maschile al festival di Cannes (festival che – bisogna dirlo – ha sempre dato un certo rilievo al cinema asiatico). Ho letto un po’ di malcontento a riguardo, ma mi sembra ingiustificato.
Di tante valide interpretazioni, quella di Yakusho si differenzia per la quasi completa assenza di recitativo e dalla moderatezza espressiva. Eppure, accarezzato dalla regia di Wenders, l’attore ha la capacità di far emergere le emozioni del suo personaggio, di farle arrivare alla platea. Sappiamo quando Hirayama è felice, quando è irritato, quando è intenerito.
Tranne nell’ultima sequenza: è forse l’unica scena dell’intero film completamente ermetica, passibile di una varietà infinita di interpretazioni. Hirayama sorride, poi inizia a commuoversi, poi a piangere. È talmente graduale che all’inizio pensiamo di esserci sbagliati. E invece Hirayama è lì, guida, piange, e la macchina da presa non si stacca un attimo dal suo volto. Poi, il film si chiuderà con una Tokyo svettante di grattacieli illuminata da un sole che sorge, giallo e rotondo come un’arancia.
Mia sorella, interpretando questo spezzone, mi ha raccontato di come ci abbia visto un “glitch” nella vita del protagonista. In tutto questo universo zen, c’è qualcosa che forse ferisce? Del rimpianto, o del peso nascosto?
Può essere: in effetti non sappiamo nulla del passato di Hirayama, ma dalle parole della sorella capiamo che qualcosa, forse di traumatico, deve essere accaduto. E sappiamo che Hirayama ha preso una scelta, e che non tornerà sui suoi passi. Ma allora cosa significa quello sfogo?
Personalmente non sono riuscita a leggerlo come un rimpianto, o la presa di coscienza di una mancanza o di una solitudine. Mi risulta anche molto difficile interpretarlo come un senso di prigionia rispetto a una vita umile o di amarezza per un tempo che, scorrendo, modifica le cose in maniera radicale lasciando indietro chi non si adatta.
Hirayama – fotogramma dal film
Non sappiamo se Hirayama sia felice, non sappiamo se sia appagato, non sappiamo per cosa si sia commosso, per quale parola o ricordo o pensiero. Ma una cosa è certa: con quel pianto e quel riso così indecifrabili, così complementari, si chiude il cerchio di una cura. Si chiude il tao, con il cerchio dello yin nell’abbraccio dello yang. Si chiude un racconto dove la luce e le ombre si sono sovrapposte, dove ciò che non sappiamo della vita di quest’uomo bussa alla porta della nostra mente per bilanciare ciò che abbiamo appreso.
Tempo fa, nell’adolescenza, lessi un libro che mi torna stranamente in mente mentre vi parlo di Perfect Days. Era Lolita, di Nabokov. Uno di quei libri che accadono, nella vita. Humbert torna da Lolita dopo anni e si rende conto di non averla mai conosciuta realmente, di averla resa – carne, capelli, fianchi – una creatura molto più semplice e ridotta di quanto lei non sia. Di essersi fermato a una superficie dimenticando completamente l’esistenza di una profondità.
Lolita mi torna in mente, in questa scena finale di Perfect Days, come un monito: che la semplicità non autorizza la semplificazione.
Ancora una nota: vi lascio i titoli e gli autori dei libri che vediamo nel film. Le Palme Selvagge di William Faulkner; Urla d’Amore di Patricia Highsmith; e Alberi di Aya Kōda.
Nel caso aveste voglia di leggerli, alla luce di una lampadina, prima di cadere addormentati.