Dalla notte dei tempi è diffusa quella convinzione secondo la quale il tempo sia relativo, perché ogni essere umano ha un diverso modo di percepirlo: un manciata di secondi possono non aver importanza per chi attende seduto su una di quelle tigliose poltrone nella sala d’aspetto di un dentista; la stessa manciata di secondi si carica di un incontrollabile potere quando si corre verso un treno e si teme che ci passi davanti, quando ormai è troppo tardi per salirci su.
Eppure il ticchettio delle lancette di un qualsiasi orologio è perfettamente simmetrico a quello di tutti gli altri, quasi come a voler ricordarci che la relatività non esiste: è solo una romantica congettura di noi persone sentimentali, una specie di antidoto per tenerci lontano dalle precisissime e fiscalissime statistiche, che calcolano tutto, fino all’ultima virgola, fino all’ultima cifra di percentuale, millimetricamente, minuziosamente.
Alle statistiche non sfugge mai nulla: è come stare di fronte a quei professori che subito ti richiamano all’attenzione, quando per un attimo la tua mente vagheggia, abbraccia un sogno, insegue una bella immagine. Le statistiche no, ti riportano a quella cruda e fredda realtà che magari proprio non ti va di vivere ed interpretare: sono quello schiaffo morale che ti investe con tutta la sua potenza e di cui faresti volentieri a meno. Per non parlare di quelle statistiche che immortalano quelle situazioni che ciascuno di noi vorrebbe ignorare, delle quali vorrebbe rimanere all’oscuro per sempre. Una tra queste è alla ribalta delle cronache più nere, più tristi, eppure più attuali di tutte: in Italia una donna viene uccisa in media ogni 3 giorni.
3 giorni, 72 ore, 4320 minuti, 259.200 secondi. In 3 giorni, si può terminare quel libro ingolfato di polvere che ormai ha fatto un solco sulla libreria, talmente del tempo che c’è rimasto; in 72 ore si può visitare ogni singolo angolo di una città che si è desiderato vedere per mesi; 4320 minuti compongono la durata dell’esistenza di alcune specie di farfalle; 259.200 secondi possono essere trascorsi ascoltando a ripetizione quel disco che ormai non ne poteva di stare immobile su quella mensola. E magari mentre tu leggi quel libro, ascolti quel disco, osservi una farfalla che nasce e che muore, vai e ritorni da quella città che tanto volevi esplorare, la tua vicina di casa – quella dagli occhi neri ed infelici, quella che ha sul corpo delle chiazze rosse grandi come voragini che, in tutti i modi, cerca di nascondere, quella dallo sguardo spaurito appena il suo piede supera l’uscio della porta che affaccia sul pianerottolo – proprio quella, non c’è più.
E allora pensi “sarà partita anche lei, ce l’avrà fatta, ne aveva bisogno, finalmente”. Ma la sua assenza si prolunga, si protrae per tempo indefinito, troppo perché tutto sia sotto controllo. E allora in te si innesca quel pensiero, quell’ingombrante pensiero che vorresti mettere a tacere, che vorresti soffocare, ma no, non è possibile, perché più vuoi reprimerlo, più la sua eco ti rimbomba nella testa: la mia vicina è stata uccisa.
E proprio lì, in quell’istante di lucida consapevolezza, ripensi a tutte quelle volte in cui sei andata da lei perché ti mancava il sale e lei non ti rivolgeva nemmeno una parola – pensavi persino che fosse una tipa scorbutica. Ti tornano alla mente tutti quei rumori strani, così forti da essere avvertiti addirittura da un dirimpettaio; con tua gran sorpresa, noti che chi esce costantemente da quell’appartamento è il suo compagno, lei la vedevi di rado. Perfino il suo cellulare era uno di quei modelli vecchi, buoni solo a ricevere messaggi e chiamate e solo da un’unica persona.
E allora lì, solo lì, in quel momento ti rimproveri amaramente, aspramente, perché avresti potuto far qualcosa, avresti potuto salvarle la vita, avresti potuto infonderle il necessario coraggio per dire basta a tutti quei soprusi, a tutte quelle ingiustizie, a tutte le prevaricazioni subite costantemente, a tutta quella pioggia di rimproveri senza alcuna valida giustificazione, a tutte quelle urla, a tutti quei ceffoni, a tutti i “no” ricevuti e incassati in religioso silenzio, a tutta quella gratuita violenza perpetrata giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo.
E capisci che il tempo è relativo, sì, ma per te che esci, che hai un lavoro, che puoi scegliere cosa fare stasera, cosa indossare, chi incontrare; per lei no. Per lei ogni giornata era sempre uguale a se stessa, le lancette dell’orologio oscillavano tra un’umiliazione e una minaccia, uno schiaffo e una maniata di troppo. Lei avrebbe voluto aspettare mille ore in una squallida sala d’attesa di un dentista, avrebbe voluto correre mille chilometri pur di agguantare quel treno e scappare via, il più lontano possibile da quell’uomo. Quell’uomo, proprio quello che era – o meglio è – “il ragazzo della porta accanto”, uno qualunque, uno che magari non faceva male ad un filo d’erba, proprio una brava persona rispettabile di sesso maschile. Non un mostro, non una bestia, non un lupo mannaro, niente di tutto ciò. Un uomo, un normale uomo qualunque, magari forse un po’ goliardico nel fischiare a qualunque essere umano di sesso femminile che attraversasse per il marciapiede di fronte, forse un po’ sanguigno, un po’ geloso nei confronti della sua compagna: ma si sa, se è geloso, ti ama.
Se è geloso e ti impedisce di vedere i tuoi cari, le tue amiche ed ha sempre da ridire per qualunque indumento indossi, è perché ti ama, senza alcuna ombra di dubbio. Non perché gli è stato insegnato che tu sei roba sua, sua proprietà: non hai diritto di scelta su niente, solo perché lui vuole sollevarti da quest’immensa fatica del prendere decisioni. Se persino ti libera dal peso dell’andare a lavorare, come fai a pensare che non ti ami?
E forse ti ama, a modo suo ti ama, ma ha troppa paura di perderti, troppa paura che tu possa scegliere da sola, guidare da sola, andare a lavorare e percepire uno stipendio più alto del suo, andare dalle amiche e magari parlar male di lui, andare da tua madre e tuo padre e capire che forse il modo in cui si amano loro a te piace molto di più, perché profuma di serenità, di amore sano, di pacata armonia, di genuina semplicità. E allora quel timore lo involge, lo avviluppa, gli annebbia il cervello – poverino – non lo lascia più andare: cosa può fare se non ucciderti? È l’unica scelta che gli resta. Una scelta che in Italia viene ripetuta ogni tre giorni, 72 ore, 4320 minuti, 259.200 secondi.
Come sono sgradevoli le statistiche quando non raccontano solo di numeri, ma di vite trincerate, interrotte, spezzate, frantumate, infrante; quando non dipingono un’emergenza, ma una cosa all’ordine del giorno, di tutti i giorni, per la precisione di ogni 3 giorni.
E per tutte le Giulia, il cui tempo non è mai stato troppo relativo, mai scandito dalle bellezze della vita, da un amore sano, intrappolate in quelle stesse statistiche troppo dure, troppo drammatiche, troppo reali, è necessario non arrendersi mai, rivendicare il diritto di scelta, urlarlo in faccia a tutto e tutti, con prepotenza, fino a perdere la voce. E “per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le ali che le avete tagliato, per tutto questo: in piedi Signori, davanti a una Donna!”. In piedi davanti alle Giulia di ieri, di oggi, e purtroppo, anche di domani.