Samuele Bersani, regista di emozioni

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La finezza compositiva di Samuele Bersani ha sempre manifestato una ricercata narratività cinematografica. Questo non è evidente solo nell’immersione nei brani, ma è anche confermato dall’ultimo lavoro del cantautore, “Cinema Samuele”, pubblicato nel 2020. Già il titolo suggerisce quella predisposizione rintracciata fin dai suoi esordi artistici, concretizzata con coscienziosa espressività registica. Ma procediamo con ordine.

Già ai suoi esordi negli anni ’90 era evidente la sua potenza descrittiva, con la quale fissava il focus su storie che riuscissero a enucleare le proprie emozioni, riuscendole a srotolare a mo’ di racconto. Si pensi, per esempio, a “Chicco e Spillo”, che non solo inquadra la tematica della criminalità (italiana), ma anche compartecipa alla condizione interiore di due furfanti:

“Chicco ha una cicatrice sulla faccia/ Sta con suo fratello che si fa chiamare Spillo/ E sanno già sparare come dei cowboy […] Finalmente ci possiamo comperare quello che ci pare, / Spiegami perché non parli…”/ “Lascia stare, sta un po’ zitto, non ho voglia di parlare,/ Manca poco, abbiam finito e andiamo via…/ Scappa, presto non fermarti, corri – cazzo – non voltarti/ La sirena è quella della polizia…” […] Chicco e Spillo saltano come due gatti sulla sella/ E schizzano tuttamanetta/ “Figli di puttana! Non ci prenderete mai!”/ “Guarda che casino, guarda dove vai a finire, ho anche freddo/ E ho paura di morire: stai attento! Stai attento! Frena! Ciao.”

                                                            -Dall’album “C’hanno preso tutto”, “Chicco e Spillo”, 1992

Dotato di un incipit (quasi in medias res), di uno svolgimento e di una conclusione, questa composizione consegna una già presente maturità artistica, in linea col carattere registico sopra introdotto. Narrando le peripezie dei due protagonisti, immedesima l’ascoltatore nell’entusiasmo prima, e nella paura dopo, degli stessi.

Proprio questa maturità portò Bersani a collaborare con Lucio Dalla, col quale co-scrisse una delle canzoni più memorabili del repertorio di Dalla, “Canzone”, la cui dimensione intima è peculiare. Difatti, non si tratta solo di uno svolgimento narrativo, ma diventa la stessa canzone protagonista del brano:

 “Non so aspettarti più di tanto/ Ogni minuto mi dà/ L’istinto di cucire il tempo/ E di portarti di qua/ Ho un materasso di parole/ Scritte apposta per te/ E ti direi spegni la luce/ Che il cielo c’è […] Canzone cercala se puoi/ Dille che non mi lasci mai/ Va’ per le strade e tra la gente/ Diglielo dolcemente”

                                                          -Dall’album di Lucio Dalla “Canzoni”, “Canzone”, 1996

Dall’esasperazione di un sentimento d’irrefrenabile impazienza d’amore, il brano investe se stesso in un movimento circolarmente ritornante in sé, col quale parte alla ricerca della donna amata, per sussurrarle dolcemente il desiderio irresistibile che pervade l’anima. Una canzone in cui è esplicita la richiesta di compiere il proprio ruolo comunicativo, già implicito nella sua natura. Il verso conclusivo “se rimane indifferente non è lei”, è una nota di dolce risonanza, la quale inonda e sintonizza l’ascoltatore al cuore del sentimento che invade la stessa canzone e, per estensione, il suo cantore.

Bersani ha anche preso parte a ben due festival di Sanremo, vincendo, in entrambe le occasioni, il premio della critica “Mia Martini”, presentando “Replay”, quinta classificata nel 2000, e “Un pallone”, nona classificata nel 2012. Quest’ultima, in particolare, in forza a quel valore cinematografico sopra rintracciato, esibisce il percorso esistenziale di un pallone. Il brano suona come segue:

“Un pallone rubato/ E’ dovuto passare/ Dalla noia di un prato all’inglese/ A un asfalto che fu Garibaldi a donare/ Dalle scarpe di Messi/ Alle scarpe ignoranti […] Un pallone bucato/ Non è più di nessuno/ Anzi viene scansato da tutti i bambini/ E lasciato a ingiallire nel fumo/ Dei rifiuti bruciati/ Sotti ai fuochi di agosto/ Come se fosse giusto un destino così/ Arrivando alla fine di un corso/ Ci vuole molto coraggio a rotolare giù/ In un contesto vigliacco che non si muove più/ E a mantenere la calma adesso/ Per non sentirsi un pallone perso”

                                                                  -Dall’album “Psyco – 20 anni di canzoni”, “Un pallone”, 2012.

La particolarità della composizione sta nel posizionamento della telecamera, che riprende il susseguirsi di eventi che si imbattono sul pallone: passato dalle scarpe di Messi ad essere bloccato su un tetto, in balia del becchettio degli uccelli. Bucato e inerme, in quanto indesiderato e scansato da tutti, nonostante abbia toccato dei punti altissimi nel suo percorso vitale (le scarpe di Messi), il pallone ha terminato il suo corso “lasciato a ingiallire nel fumo sotto ai fuochi d’agosto”. Bersani, mette in scena tale itinerario problematizzandolo, domandosi se sia “giusto un destino così arrivando alla fine del corso”. E lo fa sintetizzando simbolicamente la dimensione umana, obbligata ad accettare le condizioni dissimulanti sociali al fine di entrare a far parte del “contesto vigliacco che non si muove più”, di cui anche qui Bersani dà prova di esserne grande osservatore e descrittore. Non per niente afferma che “ci vuole molto coraggio a ricercare la felicità in un miraggio che presto svanirà”, motivo per il quale bisogna superare il rancore e il dolore esistenziale, pur di “mantenere la calma adesso, per non sentirsi un pallone perso”.

Sono molti altri i brani in cui si performa questa natura registica: impossibile non citare “Giudizi universali”, “Lo scrutatore non votante”, “En e Xanax”, in cui la narratività fa da padrone, riuscendo non solo a far trasparire una dettagliata attenzione alla comunicatività, ma anche a non tralasciare quel sentimento, quell’emozionale sensibilità che vivifica la scrittura di Bersani, capace di inscenare gli svolgimenti più universalmente simbolizzanti. Ma la sua duttilità artistica, musicale e teatrale-cinematografica, arriva al suo massimo livello in “Cinema Samuele”. Tra le tracce dell’album emerge “Harakiri”, canzone che proietta una bizzarra quotidianità:

“Stava facendosi Harakiri/ Chiuso in un cinema porno francese/ Ma dopo i primi tentativi/ “Non è il momento”, disse, poi si arrese/ Agli sviluppi della trama/ Alla profondità dei dialoghi”

Il pretesto del tipico suicidio giapponese trasporta l’ascoltatore nel mondo del protagonista, alle prese con le vicissitudini della vita. Particolarità del brano è l’approccio a-schematico dello stesso, che rompe la quarta parete musicale che ha l’autore con la storia narrata, compiendovi interventi extradiegetici nel corso del pezzo. Difatti, non solo è esplicito il suo ruolo di narratore (“disse, e poi si arrese”), ma il verso “agli sviluppi della trama, alla profondità dei dialoghi” consente a Bersani di intromettersi nell’introduzione in medias res del personaggio, in procinto di compiere l’estrema decisione di strapparsi alla vita, presentandolo a copione inoltrato.

“Per arrivare all’astronave/ Quella scatola tutta lamiere/ Che non smetteva di tremare/ E si appoggiava appena su due pietre/ Aveva attraversato i campi/ E si era aperto il mignolo di un piede/ Canzoni d’amore altamente nocive/ Per un cuore già troppo pulsante/ Sapendo che in giro non c’era un dottore/ Non stava mai lì ad ascoltarle/ davanti a uno specchio di carta argentata/ Pensò, “Guarda che fisico/ Potrei dire di aver fatto lo stuntman […] Persino a far finta di avere un fucile/ Col quale difendersi quando/ Provavano a superare il confine/ Sparava bestemmie di marmo/ Davanti ai ragazzi seduti sui cofani che lo provocavano/ Tiro giù anche l’ultimo santo

In queste strofe, si vuole esemplificare quella universalità che appartiene alle peripezie e all’ambientazione del protagonista, simboleggiata anche dalla indefinibilità della scarna scenografia allestita. In apparenti condizioni precarie, viene raffigurato e devoto alle fantasticherie di spirito che vivificano la stessa precarietà che lo attornia e alle prese con la “malata socialità”, quasi vissuta con diffidente distacco, persino costringendolo a doversi difendere. Le chiavi di lettura sono molteplici: si può prendere la storia ad un primo livello interpretativo, quello precipuamente narrativo, con gli elementi volutamente e distortamente regressi; o coglierne quella universalità allegorica, peculiare della sua scrittura, di cui questo brano è una lucente dimostrazione.

“Poi dopo una serie giorni infelici /Venne fuori vestito di bianco/ Sembrava una lucciola in mezzo a un blackout/ Per fargli un regalo/ Anche il cielo di colpo si aprì a serramanico/ Come se spalancasse un sipario”

L’allegoria si risolve nell’immagine della “lucciola in mezzo a un blackout”, che si attiene alla simbolizzazione che il personaggio porta con sé: la purezza che si distingue nel buio marasma della vita. Si concretizza, invero, la possibilità della dipartita dello stesso che, per “ironia della sorte”, riceve in dono l’apertura a serramanico del cielo, che non solo rimanda all’immagine iniziale dell’harakiri, chiudendo il cerchio aperto dall’incipit, ma spalanca anche il sipario, quasi a voler indicare una vita post mortem. Proprio quest’ultimo verso extradiegetico conclude il brano, il quale, come accennato poc’anzi, pare rompere la parete che corre tra realtà e rappresentazione.

È quest’ultima canzone a cucire i fili del Samuele regista di emozioni, regista allegorico che, con audace eleganza, estrinseca il focus “giudicativo universale” che gli conferisce il premio di migliore colonna sonora di proiezione della vita. Non per niente, nel brano “Pixel” afferma: “Ho un miliardo di pixel/ Senza essere Spielberg, dove vai?/ Che ti sto fotografando/ come se fossi il vero Marlon Brando”. Una delle frasi di Bersani più identificative di tale direzione artistica recita: “Non ha bisogno di avere il ciak per dare inizio a una realtà che ha protagonisti inconsapevoli di esserlo; non c’è nemmeno necessità di effetti speciali in questa città, perché c’è già abbastanza agitazione e panico da vincere un oscar”[1].

La distanza tra finzione cinematografica e realtà è sfumata e labile. Gli uomini sono “protagonisti inconsapevoli di esserlo”, e le città da loro animate, “premiabili di oscar”, sono la scenografia che li accoglie. Questa consapevolezza, inoltre, non vanifica il ruolo registico di chi tenta di rappresentarne l’essenza, perché in fondo, per Bersani, la riproduzione filmica e artistica in musica non è altro che il tratteggiamento dell’esistenza effettuale “nell’aldiquà”.


[1] Dal brano “La soggettiva del pollo arrosto”, contenuto nell’album “L’Aldiquà” del 2006.

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