L’addio all’ultimo “ragazzo di Monte di Dio” due volte al Quirinale
Penso che un Giorgio così non ritorni mai più, forse avrebbe scritto Franco Migliacci come incipit ideale per riassumere la lunga vita di Giorgio Napolitano.
Napolitano ha vissuto molte vite, ma è rimasto sempre lo stesso: il giovane napoletano che aveva scelto il Pci senza mai confondere la lealtà al partito con la rinuncia a esercitare la ragione critica. Come poteva, infatti, dimenticare le amicizie con certi suoi coetanei, spiriti liberi che rappresentavano la nuova generazione della cultura italiana. Un’élite che aveva i volti di uno straordinario gruppo di giovani, i “ragazzi di Chiaia”, che si erano ritrovati insieme a Giorgio nello stesso liceo Umberto. E avrebbero lasciato un segno fondamentale tra letteratura, teatro, cinema, giornalismo: Raffaele “Dudù” La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Francesco “Ciccio” Rosi, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, Luigi Compagnone, Massimo Caprara, Tommaso Giglio e tanti altri, sullo sfondo della lezione di Curzio Malaparte. Come ricordava lo stesso Napolitano, con quel gruppo di amici estremamente stimolanti e vivaci, la vita era intensissima. Si incontravano quasi ogni giorno, nella casa o nella stanza di pensione di qualcuno di loro, per discutere delle loro letture e delle loro prime prove letterarie o artistiche. Un ruolo di guida era svolto da due amici più anziani, Renzo Lapiccerella e Galdo Galderisi, già comunista e in rapporto con il centro del partito. Insieme i “ragazzi di Monte di Dio” fondarono una rivista, Latitudine, diretta da Massimo Caprara, e la presentarono alla dirigenza dell’appena costituita Federazione comunista. Ma ne furono respinti perché ritenuti rei di “ermetismo, decadentismo e perfino intellettualismo” giacché vi si citavano gli eretici Gide e Malraux. Al contrario, ad apprezzare molto la rivista per il suo cosmopolitismo fu Curzio Malaparte, che nella sua villa di Capri ricevette il ragazzo Napolitano. Lo scrittore che di lì a poco avrebbe richiesto l’iscrizione al Pci provocando la reazione indignata di Mario Alicata e altri per i suoi trascorsi fascisti, gli regalò una copia di Kaputt, con una dedica di apprezzamento per la sua capacità di “non perdere la pazienza neanche davanti all’Apocalisse”.
Il radicamento profondo della sua azione e del suo sguardo sul Paese non aveva mai sottratto lo sguardo di Napolitano dalla propria Napoli: alla quale, in ogni caso, anche nelle sortite più ruvide o dolenti, mai aveva fatto mancare i sentimenti di profonda vicinanza e partecipazione intensa e appassionata, seppur dietro il tono di una permanente e rigorosa autovigilanza. Guardando alla storia aveva spesso tratto motivi di incoraggiamento e di monito da indirizzare alla città, ma “non da napoletano”, amava rimarcare, bensì “da garante dell’unità nazionale”, ricordando le celebri righe tratte dal libro, Premio Strega, “Ferito a morte” del suo intimo amico Dudù La Capria: “Il napoletano che vive nella psicologia del miracolo, sempre nell’attesa di un fatto straordinario tale da mutare di punto in bianco la sua situazione. L’aspetto ambiguo dell’umanità del napoletano con la sua antitesi di miseria e commedia, di vita e teatro. Le due Napoli, una la montatura e l’altra quella vera.”
Quella di Napolitano è stata una vita che ha fatto della politica il fulcro di una missione: quella di accogliere ai più alti livelli di interesse, soprattutto nel suo periodo di vita trascorso al Quirinale, tutti i campi dello scibile, dalla cultura da intendersi non solo in campo storico-filosofico- artistico, letterario, teatrale, cinematografico, musicale, ma anche dal punto di vista dell’attenzione alle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Con Napolitano se ne va un eminente esponente di quella “Politica colta” che faceva della dialettica del buon uso delle parole, soppesate e valorizzate nel loro significato più profondo, il più importante strumento di confronto democratico, sempre ed esclusivamente volto al buon indirizzo del progresso comune, con particolare attenzione alle future generazioni. Giorgio Napolitano è stato l’ultimo gentiluomo di una generazione di giganti, ispirati da valori puri e solidi ideali. Un uomo che pensava prima di parlare e rifletteva prima di pensare.