Sgarbi: quando l’Arte è compagna di vita

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(a margine di “Scoperte e Rivelazioni, caccia al tesoro dell’arte “).

Giovanni Macchia, finissimo studioso di Luigi Pirandello, ci ricorda nel suo saggio “La Stanza della Tortura” che il Maestro siciliano era visceralmente affezionato ai personaggi delle sue opere: gli facevano compagnia durante la notte, preziosamente propizia per scrivere le sue commedie e novelle.

Li sognava ed intesseva,per esempio, con “Sei Personaggi in cerca d’autore” colloqui o soliloqui. Questo per dimostrare che dopo che l’opera era partorita dalla sua immaginazione, seppure i protagonisti vivessero di luce propria, tuttavia, il legame con essi non si tagliava, erano amici notturni del rinomato drammaturgo.

Mi sovviene questo ricordo dopo aver letto l’ultimo lavoro di Vittorio Sgarbi: “Scoperte e Rivelazioni; caccia al tesoro dell’arte” I fari Editore La Nave di Teseo.

Sgarbi, infatti, vive un contatto continuo, perseverante, endemico con l’opera d’arte. Parla, dialoga con le tele, le sculture, individua il palpitante sviluppo dell’autore, spiegandone particolari, dettagli, dai quali si può desumere il costrutto del pensiero dell’artista fissato e riprodotto in quel quadro, in quella scultura.

Vive in un suo mondo dorato, unico, bellissimo ove non esiste la dimensione del tempo e dello spazio, del finito, il senso della giornata, della consunzione o della morte: gli artisti con i quali intesse i suoi sontuosi colloqui gli fanno dimenticare che siano trascorsi secoli, sono suoi amici, gli fanno compagnia, come accadeva a Pirandello con i suoi personaggi.

Questa dimensione la possiede chi ama l’arte.

Jacques Derrida, filosofo francese del ‘900, sostiene per esempio che in un dipinto si riverbera la verità: un atto come il dipingere, che non si risolve in unico tratto, non si esaurisce mai in un oggetto, ma si snoda invece, di tratto in tratto, da tela a tela, senza che si possa mai dire mai: ecco questa è la verità definitiva.

Sgarbi è un gran lavoratore, ma la fatica non gli pesa. Viaggia continuamente sempre alla ricerca di opere, tele, sculture e gli capita spesso di scovare capolavori in luoghi inusitati: in un cortile privato, in una soffitta, in una casa qualunque. E quando scopre un capolavoro è come l’amante che rompe il silenzio che preme il suo cuore alla vista della sua amata, stilla dal suo volto una pena antica, “il succo dei frutti caduti allora”, per dirla con Cesare Pavese.

In questo libro dà conto di scoperte e rivelazioni, dei lunghi viaggi.

Per capire un’opera occorre conoscerne molte, in una implacabile gara con sé stessi e con gli altri studiosi. Il più bravo è quello che ha visto di più, che ha viaggiato di più, che ha visitato più chiese e più musei, mappando territori per capire epoche e stili, per studiare opere note con occhi nuovi, per scoprirne di mai viste. È una caccia continua, e una continua sorpresa. Occorre classificare, catalogare, consultare libri, confrontare fotografie. Ho visto all’opera, ho vissuto le case e gli studi, invidiato le biblioteche e le fototeche di molti storici dell’arte, allievi di Roberto Longhi, frequentatori amorosi di quadri” scrive nell’introduzione di quest’ultimo libro.

Ha raccolto perciò i suoi appunti risalenti agli anni ’70, di quando era allievo di Francesco Arcangeli. “Eravamo nell’autunno 1970, sono passati oltre cinquant’anni, io ero poco interessato alla storia dell’arte, e convinto di dedicarmi alla critica letteraria; ma, una volta entrato in quella stanza, non ne sarei più uscito. Non ricordo altre aule, altri docenti, altre lezioni. Arcangeli ci avvinse tutti. Ci parlava, ci raccontava esperienze ed emozioni, non spiegava esibendo erudizione e dottrina, ci invitava a fare un viaggio nel tempo portando la storia nel presente, con una immediatezza e una seduttiva forza di persuasione che avevo già avuto la fortuna di sperimentare nell’adolescenza grazie alle conversazioni del mio letteratissimo zio Bruno Cavallini e che ora ritrovavo nei mondi nuovi degli artisti raccontati da Arcangeli”.

Era l’Arcangeli capace di intessere paragoni ed accostamenti storici tra artisti anche lontani di epoche e di secoli. Lui chiamava queste comparazioni come “tramandi”.

Da allora, il mio rapporto con le opere d’arte si è fatto più ravvicinato, fino a diventare una sempre più stretta intimità, nutrita anche di gelosie e invidie: per chi ha visto prima, per chi ha meglio capito, per chi ha acquistato dipinti orfani o trascurati grazie all’occhio e all’ingegno, in una gara che richiede attenzione, velocità e sveltezza. La maggiore sofferenza è non avere visto, e anche peggio, avere visto e non avere capito […]. Occorre essere vigili e accorti, con le antenne pronte, perché in ogni luogo del mondo ti aspettano silenziose, opere di maestri nascosti, che chiedono un occhio che le attraversi. Basta poco per arrivare tardi”.

Ed il libro è una carrellata di scoperte e di rivelazioni, che in una recensione è difficile, per l’angusto spazio, darne conto.

Ma ricordiamo per esempio quando ha individuato l’opera di Giacomo Jaquerio, “San Giorgio che trafigge il drago”.

Grazie ad un signore gentile che aveva ascoltato una sua conferenza in un circolo letterario di Torino, seppe dell’esistenza presso la città di Lemie delle opere dell’artista Jaquerio.

Gli feci ripetere il toponimo a me sconosciuto; egli, prima di congedarsi, aggiunse che l’affresco era in restauro e, per mille difficoltà, impossibile a vedersi. Questo è bastato a incuriosirmi e a raccogliere la sfida. Così, il giorno dopo, sono partito per Lemie, inoltrandomi nelle Valli di Lanzo, tra piccoli borghi come Viù, Coassolo, Subina, Fucine, luminosi sotto la neve. A Lemie ho incontrato il sindaco, che mi ha portato a vedere i notevoli e sconosciuti affreschi della confraternita del Santo Nome di Gesù, in una cappella del 1546 incorporata nella casa di riposo della Divina Provvidenza […]. Il sindaco, cordiale e contento, confermava le tre prerogative che accompagnano la mia ricerca: curiosità, fiducia e fortuna. Eccomi, dunque, a poche ore dall’inconsapevole suggerimento, davanti a un ciclo di affreschi intatto, mai compiutamente studiato, e classificato sotto il nome di comodo di maestro di Forno di Lemie”.

Nel libro si dà conto anche di dispute tra studiosi, per l’identificazione della paternità di opere. Per esempio, la “Madonna Litta“, dipinto bellissimo esposto al Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo, si controverte se sia da attribuirsi a Leonardo Da Vinci, come ritengono in molti, o ad un suo allievo.

Sgarbi sostiene: “Nonostante gli innumerevoli pareri favorevoli e contrari, io credo che non sia di Leonardo, bensì di un suo allievo, perché le mani della Madonna e del Bambino sono piuttosto rigide, tozze, il volto di Maria duro, quasi scolpito, come fosse la derivazione di una scultura. Se comparata alla trasparenza del volto di Ginevra de’ Benci (ritratta nel 1474), che faceva sentire l’anima della donna, o agli angeli della Vergine delle Rocce, nella Madonna Litta manca quella morbidezza, quella distanza, quell’alone di luce che sono la cifra stilistica di Leonardo. Certamente rientra nella sua scuola ed è opera di uno dei suoi allievi più vicini, su suo cartone”.

Nel “Vittoriale”, residenza storica del Vate Gabriele Annunzio, Sgarbi ha visitato la collezione del grande poeta, ma è giunto alla conclusione secondo cui D’Annunzio non è un collezionista, ma un regista e un arredatore quasi del tutto indifferente alla qualità delle opere d’arte.

Lì è stato rinvenuto un’opera “Giobbe” secondo Sgarbi da attribuirsi al pittore Veneto Antonio Zanchi, (1631-1722), forse il più noto fra i cosiddetti pittori tenebrosi.

Suggestivo è il racconto della scoperta di un quadro “Madonna con Gesù Bambino” che Sgarbi attribuisce a Moretto di Brescia.

Coincidenza vuole che la notte del mio malore al cuore io fossi reduce dal Teatro Grande di Brescia per una lectio sul trascurato Moretto da Brescia, tra i maestri riconosciuti del Caravaggio certamente il più radicale nell’agganciare alla verità delle cose e dei sentimenti la rappresentazione di soggetti prevalentemente devozionali”.

A teatro era presente un suo amico affettuoso, tal Romeo, che il giorno successivo gli scrive un commento lusinghiero e gli segnala una preziosa scoperta: “Buongiorno Vittorio! Inizio con un grande augurio di buona guarigione! Ieri ero a teatro a Brescia a sentirla parlare del nostro Moretto e del nostro presepio cattolico, un incanto…” Aggiunge di possedere un’opera che probabilmente sia da ascrivere al Moretto.

Scrive Sgarbi: “L’ho vista, e posso confermare senza esitazioni che si tratta di un’opera autografa di Moretto, di singolare semplicità e purezza. Siamo a uno stadio della pulitura che ci fa comunque vedere e sentire gli spessori delle stoffe, la concentrazione dello sguardo nel volto di nitido disegno della Vergine, il gesto del bambino che, volgendosi verso di noi, si appiglia al velo della madre”.

Di un quadro si deve percepire l’anima del suo autore. Sgarbi in questo caso sostiene: “Ci sono quadri che portano in sé un mistero che appare impenetrabile, sia per l’assenza di dati esterni, documentari e di provenienza, sia per una resistenza a fornire elementi esterni di palese riconoscibilità […]. Quest’ultimo esercizio, per il critico, ha qualcosa di magico. È una penetrazione oltre la superficie delle immagini, per individuare l’anima dell’autore, la sua natura profonda. Molti dipinti che noi vediamo nei musei, con indicazione d’autore sicura, non sono classificati per la certezza della provenienza o per corrispondenze a documenti di archivio, ma per una essenza del loro autore, che passa attraverso anche indizi esterni”.

Per esempio, è accaduto che un’opera “Sant’Antonio da Padova” classificata anonimamente tra i pittori dell’Italia Settentrionale sia invece di un grande pittore Leandro Bassano.

Ricorda Sgarbi: “I musei hanno opere che appaiono remote e impenetrabili. Eppure, da vari indizi, nel Sant’Antonio, l’ampia manica dell’abito e la mano ben disegnata ma molle, il libro con il dorso di cui si numerano le pagine, ma anche il volto intenso e ispirato, con qualche fragilità formale, sembrano portare verso Leandro Bassano, figlio di Jacopo, nel suo tempo giovanile”.

Così Sgarbi si esalta quando ricorda il Guercino: “San Giovanni Battista visitato in prigione da Salomè”.

Ebbe una disputa con un altro critico Sir Denis Mahon, perché quest’ultimo confuse un originale con una copia di un’opera del Guercino: “Sibilla”.

Sibilla, copia di proprietà della Banca popolare di Modena, era reputata come originale da Denis Mahon e da qualche critico mercantile. Mi arrivarono gli echi della sua ira. Ma devo riconoscere che, molti anni dopo, egli ebbe l’onestà di ammettere il suo errore e di scrivermi una lettera, comunicandomi di avere trovato l’originale presso Canesso, retrocedendo la versione modenese a copia. Motivo di orgoglio, per me, ed episodio indimenticabile ora che, visitando un collezionista milanese, vedo riapparire un dipinto del Guercino (olio su tela, 81, 5×99, 5 cm), del quale non dubito, accompagnato da una lettera dall’aldilà, puntuale, precisa e, credo, inedita, di Sir Denis. Il soggetto del dipinto di Guercino è curioso e conosciuto in almeno altre due versioni. Si tratta dell’insolita, nell’iconografia del santo, visita della piccola Salomè all’uomo che ha umiliato sua madre, Erodiade, più frequentemente registrata nella prigione del Battista, anche per tentarlo. È il rifiuto che anima la figlia Salomè, dopo la danza dei sette veli, a chiederne la testa. Ma il dipinto di Guercino introduce un elemento nuovo: la morbosa curiosità della ragazza che, quasi identificandosi con la madre, cerca di comprendere le ragioni del fascino del Battista. Ella si affaccia, di sguincio, tra le sbarre, nel buio; l’uomo non la vede ma, quasi avvertendone la presenza, le volta, ostentatamente, le spalle. L’inquadratura è potente, semplificata, ancora caravaggesca. Il santo, quasi al centro, è forte, risoluto, come un apostolo di Ribera”.

Diventa accattivante Sgarbi quando ricorda la collezione di Silvio Berlusconi.

Si annovera in essa il ritratto tenebroso di una bellissima donna, vittima anche di un delitto:”Anna Fallarino”.

Sgarbi scrive: “Difficile trovare (e rendere nota) un’opera che meglio corrisponda alle caratteristiche di “scoperta e rivelazione” di quella che qui si presenta. L’autore è tra i più noti e più vilipesi del Novecento italiano: Pietro Annigoni. L’opera è certamente la più originale, e anche la più estranea, di una collezione di cui molto si favoleggia e poco si conosce: quella di Silvio Berlusconi. Berlusconi non è un collezionista, e la sua quadreria corrisponde piuttosto a una tipologia ambientale, a uno spazio nominalmente predisposto. Non mancano opere significative di Tiziano, Francesco Francia, Pietro Vecchia, Cornelis Van Haarlem, campioni di interesse singolare. Ma manca uno spirito guida, che non c’è più o non c’è mai stato. Esso è forse tutto in questo ritratto femminile, gravido di mistero e di dolore. Non molti ricordano che la Villa San Martino di Arcore, principale dimora di Berlusconi, appartenne, come un palazzo a Milano e un altro a Roma, al marchese Camillo Casati Stampa, protagonista di un fatto di sesso e di sangue nella tarda estate del 1970. Non ad Arcore, ma nella casa di Roma, dopo essere rientrato da una battuta di caccia nella tenuta dei Marzotto a Valdagno. La storia è presto detta: il conte Camillo sposò in seconde nozze una bella donna napoletana, saporita e carnale, Anna Fallarino. Nell’evolversi del loro rapporto intervennero desideri e piaceri turbolenti. Camillo si eccitava vedendo la moglie accoppiarsi con giovani adescati e pagati per garantire un piacere esclusivamente fisico. Soldati, studenti, gigolò. Uno di questi fu il bello e romantico Massimo Minorenti, verso il quale Anna mostrò di provare una tenerezza e un sentimento particolari. Il conte Camillo ne ebbe il sospetto e poi la certezza. Un sentimento, e non soltanto il godimento fisico, univa i due. Forse Anna era stanca dei giochi erotici in cui era stata invischiata. Nella stanza attigua alla grande sala da pranzo della villa di Arcore, dove si sarebbero svolti più recenti feste e ricevimenti, l’erotismo e i turbamenti di Anna Fallarino, con un presagio di tragedia e di morte, si avvertono tutti nel ritratto rivelatore dipinto da Annigoni nel 1969, un anno prima del tragico epilogo. Al di fuori di ogni tentazione illustrativa o lusinghiera nei confronti del personaggio, Annigoni coglie, in una giornata d’inverno, la coscienza del peccato e, ancor più, la condanna di un piacere materiale e non gioioso. Lo sguardo obliquo indica sospetto e diffidenza, le labbra carnose una sensualità velata di tristezza e di irreparabile malinconia […]. Il ritratto ha un’intensità senza precedenti. È storia e cronaca. Esistenza ed essenza. È ciò che resta di una tragica e tormentata vicenda umana […]. Il pittore non ha avuto bisogno di interpretare o deformare; ha semplicemente visto l’anima e il tormento della donna e, quasi contro di lei, ha voluto dipingerla dalla parte della morte. Conosco pochi ritratti così intensi e così coinvolti, anche di maestri maggiori. Annigoni ha dipinto la verità di un’anima dolente e perturbata che non poteva nascondere la sua infinita malinconia”.

Il libro è bellissimo: ci sono rimandi a Raffaello, Luca Giordano, Tintoretto ed altri autori narrati con prosa inclita e di lessico ricercato.

Vittorio si esalta: l’arte è sua compagna di vita.

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Biagio Riccio

Avvocato, dal 1993 esercito la professione forense nel tribunale e nel Distretto di Corte d’Appello di Napoli. Avvocato civilista dall’anno 2008, patrocinante in Cassazione. Fondatore dell'Associazione Favor Debitoris.

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