Il Garante per la protezione dei dati personali ha sanzionato Roma Capitale (176.000 euro) e Ama (239.000 euro), per aver diffuso i dati delle donne che avevano affrontato un’interruzione di gravidanza, indicandoli su targhette apposte sulle sepolture dei feti presso il cimitero Flaminio di Roma.
I cimiteri di feti sono aree cimiteriali in cui vengono sepolti in genere anche neonati e bambini piccoli; la sepoltura può essere obbligatoria o facoltativa.
In particolare, secondo il Regolamento di polizia mortuaria: i “prodotti del concepimento” di età inferiore alle 20 settimane possono essere sepolti su richiesta dei genitori; per i feti al di sopra delle 28 settimane, considerati “nati morti”, la sepoltura è sempre prevista; infine, per i “prodotti abortivi”, cioè tra le 20 e le 28 settimane, vige l’obbligo di sepoltura, che viene espletato dall’Asl a meno che non ne facciano richiesta i genitori.
I cimiteri dei feti sono legali, ma ciò che rappresenta un problema è ritenere legittimo rendere riconoscibile sulla tomba del feto il nome e il cognome delle donne che ricorrono all’interruzione volontaria di gravidanza, senza che queste ne siano al corrente; ciò rappresenta una limitazione all’autodeterminazione e un’invasione della sfera personale delle donne stesse.
Dopo che nel 2020 molte donne avevano scoperto i loro nomi sulle tombe dei feti, nel settembre 2021 era stata avviata un’azione popolare portata avanti da Radicali e Libera di abortire, contro l’Ospedale San Giovanni, Asl e Ama per la sepoltura dei feti al cimitero Flaminio di Roma, affinché ci fosse un pieno coinvolgimento delle donne che ricorrono all’interruzione di gravidanza anche per quanto riguarda la destinazione del feto e che nessuna di loro dovesse scoprire solo in seguito una croce con il suo nome e cognome.
L’associazione Differenza Donna aveva presentato un esposto sulla vicenda, ma il Tribunale di Roma, pur riconoscendo il danno, accolse la richiesta, da parte della Procura, di archiviazione del procedimento penale a carico del personale sanitario e dell’Ama, per la confusione esistente sulla regolamentazione locale in materia di sepoltura.
Rappresenta, quindi, una grande vittoria il Provvedimento del 27 aprile 2023 [9900826] con cui il Garante per la protezione dei dati personali dichiara che è vietata la diffusione dei dati sull’interruzione di gravidanza.
In particolare, il GPDP afferma che i dati personali[1] relativi all’interruzione di gravidanza “rientrano a pieno titolo tra i dati relativi alla salute (artt. 4, par. 1, n. 15, e 9, nonché considerando 35 del Regolamento). Ciò, non solo nei casi in cui la rilevazione di informazioni sulla salute fisica e psichica della donna nell’ambito dell’interruzione di gravidanza sia esplicitata dalla disposizione normativa (cfr. legge 22 maggio 1978, n. 194, ‘Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza’ […] ma anche in tutti gli altri casi (interruzione volontaria o aborto spontaneo), trattandosi di un evento connesso ad una ‘prestazione di servizi di assistenza sanitaria’ (art. 4, par. 1, n. 15, del Regolamento)”.
La diffusione illecita dei dati, oggetto del provvedimento in questione, riguarda quei casi in cui la sepoltura non è avvenuta su richiesta delle stesse donne o dei familiari, ma su richiesta della Asl. Anche a causa di un’informazione carente da parte delle strutture sanitarie, le donne interessate non sono state messe a conoscenza del fatto che, anche nel caso si scelga di non effettuare la sepoltura, questa avviene, comunque, su impulso della Asl; ciò va appunto a demolire la libertà di scelta delle donne e il loro diritto alla privacy. Il Garante specifica che “paradossalmente, la possibilità di indicare ‘il numero di registrazione dell’arrivo al cimitero’, anziché le generalità della donna, è prevista solo ‘se richiesto espressamente dai familiari’, richiesta che però difficilmente può essere presentata in assenza di un’adeguata informazione”.
Il Garante privacy ha così adottato un provvedimento correttivo nei confronti di Roma Capitale “considerato che l’indicazione dei dati delle donne sulle targhette apposte sopra le sepolture risulta essere stato effettuato in assenza di una base giuridica (artt. 5, par. 1, lett. a) e 9 del Regolamento; art. 2-sexties del Codice) e in violazione dello specifico di divieto di diffusione di dati sulla salute (art. 2-septies, comma 8, del Codice), che il trattamento di tali dati è stato effettuato in modo inesatto e incongruo per contrassegnare una sepoltura che non riguarda la donna (art. 5, par. 1, lett. d) e, in ogni caso, privo di una finalità legittima, atteso che la necessità di identificare la sepoltura di un feto poteva essere perseguita anche riportando semplici codici (art. 5, par. 1, lett. b)”.
Mettere nome e cognome di una donna sulla tomba di un feto, senza che la stessa ne sia al corrente, è un’esposizione pubblica di una situazione che invece è privata, è una vera e propria invasione della sfera personale delle donne che ricorrono all’Ivg e una forma di controllo esercitato sulla vita altrui, che vede un’unica decisione imposta per tutte, come se tutte le persone, i sentimenti e le storie fossero uguali.
[1] “Per ‘dato personale’ si intende ‘qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile (‘interessato’); si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale’ (art. 4, paragrafo 1, n. 1 del Regolamento). Sono ricompresi tra le categorie ‘particolari’ di dati personali i ‘dati relativi alla salute’, ossia i ‘dati personali attinenti alla salute fisica o mentale di una persona fisica, compresa la prestazione di servizi di assistenza sanitaria, che rivelano informazioni relative al suo stato di salute’ (art. 4, par. 1, n. 15, art. 9 e considerando n. 35, del Regolamento)”.
Dottoressa in Giurisprudenza, abilitata alla professione forense, con un Master in Studi e Politiche di Genere. È un'attivista digitale, crea contenuti legali per Chayn Italia, una piattaforma che si occupa di contrastare la violenza di genere utilizzando strumenti digitali, ed è membro della Redazione de Il ControVerso. Scrive su attualità, diritti umani, privacy e digitale, inclusione, gender gap, violenza di genere.
Attualmente lavora nel settore dell'editoria libraria.