Fitzcarraldo: Elogio ai Sognatori

Tempo di lettura: 6 minuti

“Without dreams we would be cows in a field, and I don’t want to live like that.
I live my life or I end my life with this project.” – Werner Herzog [1]

Mi è capitato di recente di incontrare Werner Herzog in un luogo inaspettato.

Si è trattato di un incontro tanto imprevedibile quanto unilaterale, dal momento che non è mai avvenuto in qualche latitudine geografica, quanto piuttosto letteraria.

L’ho incontrato, perfettamente a caso, tra le pagine del “Limonov” di Emmanuel Carrère: giusto un cameo del regista che ha incrociato la carriera del giornalista narratore a un festival di Cannes del 1982, senza lasciare una completamente positiva impressione.

È stato un incontro dopo il quale – come succede dopo tanti incontri inaspettati – ho dovuto fermarmi a riflettere: perché il giornalista francese Carrère, nel corso di una biografia dedicata a un poliedrico dissidente russo, ha ritenuto opportuno inserire una vicenda della sua vita personale in cui si è trovato a intervistare il regista tedesco (il quale probabilmente ignorava, a sua volta ignorato, qualunque aspetto della vita del Limonov protagonista)?

La risposta è arrivata naturalmente: c’è un tratto comune tra il Limonov ribelle, dannato, ossessivo e il Werner Herzog dalla voce dolce che Carrère descrive come un’esperienza quasi traumatica di intervista. E c’è un tratto comune tra i loro personaggi Edička (la forma romanzata dello stesso Limonov) e il Fitzcarraldo del capolavoro cinematografico omonimo. 

Ciò che ha spinto Carrère a scrivere dell’uno mentre scriveva dell’altro è in realtà una constatazione semplice: ci sono molti uomini su questo mondo – tra cui Limonov, tra cui Herzog – che condividono un destino di sognatore.

Il che ha tratti comuni: dedicarsi anima e corpo, magari abbattersi, frustrarsi, essere a un passo dal rinunciare ma non compierlo mai, quel passo, perché un sognatore non potrebbe farlo, si esaurirebbe nella sua stessa essenza. 

Limonov scriveva solo ed esplicitamente di sè. Werner Herzog non ha questa pretesa. E tuttavia Fitzcarraldo, se non è un personaggio autobiografico, è solo perché è un personaggio allusivo. La maniera in cui le vicende narrate nel film e le vicende di produzione del film stesso siano entrambe un’epopea sembra quasi uno scherzo del destino; ma è uno scherzo del destino che sembra quasi inevitabile.

Vi racconto entrambe. 

Fitzcarraldo è la storia di questo uomo (Fitzcarraldo appunto) che ha un sogno: costruire un Teatro dell’Opera nel bel mezzo della foresta amazzonica. Ci troviamo alla fine del Milleottocento, e l’impresa non è da poco, plausibilmente. Il sogno di Fitzcarraldo si infrange contro ostacoli di ogni tipo: partiamo dai più prevedibili (i finanziamenti) per terminare con navi da far passare oltre fiumi e montagne, aborigeni che scambiano questo visionario impresario per un dio, rapimenti, ammutinamenti.

La storia della produzione del film potrebbe essere essa stessa un film. Durata circa quattro anni, Herzog ha dovuto superare (anche qui partiamo dalla prevedibilità) recasting e cambi di sceneggiatura, ma anche attacchi d’ira di Klaus Kinski (l’attore protagonista), navi letteralmente incagliate tra le rapide, collaborazioni con le popolazioni locali tutt’altro che facili, incidenti mortali e accuse – forse non infondate – di sfruttamento delle popolazioni locali. Il documentario che racconta la produzione, opera di Les Blank e Maureen Gosling che passarono diverso tempo sul set, si chiama – guarda caso – Burden of Dreams.

Da sinistra: Werner Herzog, Claudia Cardinale e Klaus Kinski

Herzog, nella realtà, il suo sogno di terminare il progetto lo realizza. Fitzcarraldo, nella finzione cinematografica, no. Il film di Herzog viene realizzato e vincerà la Miglior Regia al Festival del Cinema a Cannes nel 1982, dove Carrère lo avrebbe incontrato. Il teatro di Fitzcarraldo non vedrà mai la luce. 

Il che è un esito inevitabile, dato che Fitzcarraldo è principalmente – e su questo vorrei porre l’accento – un film sul significato di creazione. L’inizio si apre con una veduta nebbiosa di una terra che una scritta in sovraimpressione identifica come quella che gli Indios chiamano “la terra dove Dio non portò a termine la creazione” e dove credono che “solo dopo la scomparsa degli esseri umani”, Dio “ritornerà per completare la sua opera”. È un presagio di quello che succederà: Fitzcarraldo non riuscirà a portare a termine il suo sogno di costruire un teatro dell’opera dove far esibire Enrico Caruso, e si accontenterà di un’esibizione orchestrale.

Il film ha colori polverosi e umidi. Il tema dell’acqua è ricorrente: a partire dalla scena iniziale, quando Fitz e Molly si affrettano per raggiungere l’opera di Manaus, fino alle lunghe vedute sui fiumi e alla quantità di imbarcazioni che compaiono, scena dopo scena. La nave lasciata scivolare dagli Indios sulle rapide, infrangendo il sogno di Fitzcarraldo, è la vittoria ultima della natura che l’uomo occidentale, con tutte le sue manifestazioni di progresso, non riesce a domare. L’assimilazione di Fitzcarraldo e della divinità è costante. Ma sono proprio gli Indios – pur nella loro credenza che Fitzcarraldo sia una forma del loro Dio – a rendersi gli artefici del naufragio del suo sogno. Il dio che non completa la sua opera, citato nella frase iniziale in sovraimpressione, si riconferma tale

Nella leggenda indigena, il completamento della creazione sarebbe possibile solo “dopo la scomparsa degli esseri umani”. Per il sogno di Fitzcarraldo sarebbe una contraddizione, visto che l’Opera è un’arte umana, messa in atto da umani, che mette in scena vicende umane per gli occhi di altri esseri umani. Se si accostano il sogno e il presupposto della leggenda, il risultato è chiaro e spietato: l’atto stesso della creazione è o infattibile, o completamente inutile.

Fitzcarraldo non rinuncia al suo sogno perché si è scontrato con le difficoltà incidentali del percorso, ma perché ha preso consapevolezza del suo ruolo. Un indizio: tutti i suoi business sono inconclusi, tra la ferrovia transandina e la fabbrica di ghiaccio. La forza della sua passione è quella che potrebbe muovere un dio a creare il mondo, a differenza degli altri imprenditori che, come dice proprio a Fitzcarraldo il direttore dell’Opera di Manaus, sono mossi solo dall’impeto del denaro. 

Fitzcarraldo, nella replica della società occidentale messa in atto dai colonizzatori nelle città di Manaus e Iquitos, è un paria. Viene disprezzato, ridicolizzato, definito “il sognatore e costruttore delle cose inutili”, “quel matto”.

È questa la differenza: ciò che Herzog mette di fronte, nel suo film, è da un lato un esempio di creazione pura, scaturita da un sogno, e dall’altro i vari antropocentrici esempi di creazione finalistica, il cui senso ultimo è il guadagno. Solo la seconda, perfettamente umana e completamente estranea al divino, può realizzarsi.

Intorno a Fitzcarraldo si aggirano altri personaggi. Uno di essi merita qualche parola, e si tratta della sua compagna Molly (interpretata da Claudia Cardinale), la quale gestisce un bordello e ha a cuore le ragazze che vi lavorano e che ricambiano il suo affetto. Ha fiuto per gli affari, come quando indica a Fitzcarraldo di avventurarsi nel business della gomma lasciando perdere il ghiaccio, e una lingua tagliente, come quando – alla festa dove Fitzcarraldo viene pubblicamente umiliato – risponde a tono a uno dei convitati. Conosce la natura degli uomini, e se ne serve: usa le armi del denaro e della seduzione e sa convincere. Molly indica la strada, sempre, letteralmente. È un personaggio chiave per la realizzazione, in quanto rappresenta la forza della creatività esecutiva, efficiente e lucida. Non è un caso che la nave che deve essere il mezzo della realizzazione del sogno di Fitz venga ribattezzata Aida Molly. Se Fitzcarraldo incarna una divinità creatrice confusionaria e in qualche modo capricciosa, che crea (o cerca di creare) perché desidera, Molly incarna una forma creatrice scientifica, che non è interessata a plasmare un prodotto, ma a mettere in atto un processo. 

Alla fine del film, la nave viene rivenduta allo stesso prezzo a cui era stata acquistata, e i soldi vengono utilizzati per acquistare un frac, sigari Havana e una poltrona in velluto rosso da teatro. Una compagnia italiana viene scritturata per una rappresentazione sull’acqua, sulla nave che era il mezzo che avrebbe dovuto portare a termine il sogno. Mettono in scena I Puritani, di Bellini. Ed è così, sulle note di A te, o cara, sulla nave che scivola sull’acqua che ha accompagnato tutto il film, mentre Fitzcarraldo fuma il suo sigaro e Molly con le sue ragazze corrono per gioco tra la folla e le popolazioni indigene e i colonizzatori salutano dalla riva, che il sogno sfuma e una pioggia leggera fonde il paesaggio della terra in-compiuta, in-finita.


[1] Senza sogni saremmo mucche in un campo, e io non voglio vivere così. Vivo la mia vita o finisco la mia vita con questo progetto. Werner Herzog.

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