Camorra: etimologia e cenni storici

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Ancor prima di addentrarci nell’origine storica del fenomeno camorristico, ci torna utile partire dalla radice etimologica del termine “camorra”.

Molte fonti riferiscono che camorra sia una traslazione del termine gamurra, un particolare abito, la chamarra, in voga nella Spagna el Settecento (De Blasio, 1993). Malgrado i più disparati aneddoti, altre fonti ritengono che il termine deriverebbe dall’omologo vocabolo spagnolo significante “rissa” o “disputa”. Dunque, è presumibile che l’origine geografica dell’organizzazione criminale sia da circoscrivere alla Spagna, probabilmente durante la dominazione Aragonese. L’antropologo italiano Abele De Blasio ricondusse il termine camorra alla compagnia dicta de camurra, formata a Cagliari intorno al XIII sec. da mercanti pisani armati alla difesa del paese. Nel suo breve trattato “Usi e costumi dei camorristi” spiega che nel dizionario etimologico D’Ascoli, alla voce camorra, corrisponde “ […] morra=gregge, banda; rinforzato dal prefisso ca-(cata) quindi: la banda per eccellenza; ([…] si ricordi che in napol. Esiste la voce morra/mmorra=banda)”;(De Blasio, 1993, 5). 

Nella letteratura spagnola sono molti i riferimenti ad un’organizzazione criminale diffusa in Spagna. Miguel de Cervantes, nella sua novella “Rinconete e Cotardillo”, racconta di una confraternita di Siviglia che era solita organizzare insieme alle parrocchie delle messe per i defunti, assicurando pace alle anime in cambio di un’offerta, dalla quale, in accordo col parroco, essi prelevavano una cifra che sarebbe servita ad acquistare l’olio per l’immagine della Santa venerata dalla città. Qualcosa di simile accadeva in quei tempi nelle carceri napoletane: qui solitamente veniva prelevata una somma dai detenuti per rinnovare l’olio dell’ immagine della Madonna.

Marc Monnier, scrittore e poligrafo vissuto a Napoli nell’Ottocento, cita il termine camorra riferendosi al vocabolario napoletano o siciliano della tradizione, nei quali il camorrista è qualificato come un biscazziere che percepiva una somma estorta agli assidui frequentatori delle bische cittadine. A tal proposito, è interessante notare l’associazione semantica del termine con il termine arabo “Kumar”, letteralmente “gioco proibito dal Corano e produttivo di lucri“, alla pari proprio dei giochi da bisca. Si potrebbe inferire che gli arabi chiamassero così gli spagnoli, i quali trasmisero il termine ai napoletani durante la dominazione. 

Racconta sempre Monnier, riferendosi ad un passaggio del celebre romanzo Don Chisciotte, che Sancho Panza, imbattendosi sulla strada in due briganti, parla con loro: “Signor Governatore […]. La Signoria vostra saprà che questo gentiluomo ha vinto ora nella casa da gioco, là di faccia, più di mille reali […] e quando sperai che (il brigante) mi avrebbe dato almeno qualche scudo di gratificazione, come è stile darne ad uomini della mia importanza, che se ne stanno testimoni de’ cattivi e de’ buoni colpi, per giudicare frodi e per risparmiare le querele, egli intascò il suo danaro ed uscì dalla casa” (Monnier, 2014, 94). Lo studioso spiega di aver tradotto la parola gratificazione, riportata nel testo sopracitato, da barato (termine spagnolo), che denota una mancia pagata, o meglio estorta al giocatore che vince. Rammenta così la somiglianza con il barattolo napoletano, ovvero l’imposta percepita dalla camorra nella Napoli del XIX sec.

Altre fonti ancora risalirebbero al 1417, anno della fondazione della «compagnia della Garduña», probabilmente stabilitasi nelle due Sicilie e riunitasi in un’ associazione composta da manovalanza siciliana reclutata dalle prigioni (Monnier, 2014). 

Secondo lo storico Barbagallo, il termine sarebbe stato tramandato oralmente e si sarebbe poi consolidato a cavallo fra Settecento e Ottocento nel vocabolario italiano. Esso era spesso affiancato dal governo borbonico alle figure di rissosi, vagabondi o oziosi. 

Che si tratti di una confluenza dai costumi spagnoli è plausibile, ma sarebbe riduttivo pensare che la camorra sia un derivato diretto della confraternita spagnola. Tanto più se ripercorrendo la storia di Napoli, teniamo in conto altri fenomeni sociali molto simili e sovrapponibili come il lazzaronismo, i compagnoni, i chiazzieri. E’ plausibile allora, che “la camorra è la continuazione, sotto altre forme, della complessa e contraddittoria ricerca di rappresentanza della plebe […]. E non era affatto scontato che tale rappresentanza assumesse caratteri criminali. Si deve parlare perciò di continuità/rottura […]”: una delle tante forme di rappresentanza possibili (Sales, 1988, 64). 

La camorra ottocentesca

Da un punto di vista storico le prime fonti si collocano attorno al 1820. In questo periodo, sotto la monarchia borbonica consolidatasi in seguito alla battaglia Sanfedista contro la repubblica Partenopea Napoleonica, la camorra era presente all’interno delle carceri di Castel Capuano, sede del tribunale, nel quartiere Vicarìa. 

L’organizzazione era scissa in dodici quartieri, ognuno retto da un caposocietà o capintrito eletto dai sottoposti, e si suddivideva al suo interno in ulteriori gruppi con compiti diversi, detti paranze, “[…]ossia in piccole corporazioni, che si distinguevano fra esse per specialità di industria o di lavoro” (Monnier, 2014, 42). Al vertice c’era il capintesta della Vicarìa, il cui compito oltre al giudizio, era la divisione del barattolo, la cassa comune dei guadagni che veniva distribuita la Domenica. Per fare questo, il capintesta si serviva di un contarulo (contabile) e di un capo carusiello, che custodiva il denaro. La camorra aveva dei gradi di prestigio; potremmo dire che indicavano un grado di onorabilità militare all’interno della cosca. Come in ogni associazione mafiosa il passaggio di grado avveniva attraverso prove e riti.

Sempre Monnier parla di un primo livello della gerarchia di garzone di malavita. Il garzone era lo schiavo dei maggiori esponenti del clan ed eseguiva solamente alcuni compiti pratici. Secondo altre fonti e come scrivono alcuni storici “Prima di iniziare questa specie di carriera, il glorioso aspirante è chiamato tamurro” (Barbagallo, 2011, 7). Risalendo lungo la scala gerarchica, attraverso svariate prove, l’adepto diveniva picciotto di sgarro, termine che “[…]si impiegava talvolta nel dialetto napoletano nel significato di errore o di colpa” (Monnier, 2014, 163). Dopo otto o dieci anni di manovalanza l’adepto poteva essere promosso al grado di camorrista.

La vera ascesa della camorra incomincerà intorno alla metà dell’Ottocento. Napoli proveniva da mezzo secolo di assolutismo monarchico conseguente alla rivoluzione del 1799, periodo che vide reinsediato, per volere popolare, il governo borbonico subentrato alla Repubblica Partenopea. L’atteggiamento repressivo dell’Ancién Regime – insieme all’ingente pressione fiscale, generarono un forte malcontento nella società, culminato nel 1848 con la cosiddetta Primavera dei popoli.

Ferdinando II diede un’occasione di riscatto alla camorra e la reclutò nella polizia occulta. Ogni congiura era così facilmente risolvibile, ognuno di loro conosceva bene qualsiasi angolo della città, e risultava essere più efficiente delle normali guardie reali. Giovane ed inesperto, Ferdinando II era terrorizzato da qualsiasi manovra eversiva contro il suo regno, pertanto perseguì una politica repressiva volta a sedare qualsiasi moto rivoluzionario. Tale politica risultò deleteria per il popolo, che oppresso e intimorito non poteva cercare altre vie che fortificare i legami di connivenza col potere occulto. E così, mentre “la nobiltà e la borghesia si organizzarono nella Massoneria e nella Carboneria […], la plebe si organizza nella camorra” (Sales, 1988, 40). 

Dunque le cointeressenze si svilupparono lungo due binari paralleli: il legame con la monarchia e quello con la plebe.

Il 1859 è l’anno cruciale per l’Unità. Siamo alla Seconda guerra di indipendenza e Francesco II, succeduto da poco a Ferdinando, non disponeva del suo carisma politico. Infatti non riuscì in alcun modo a sedare le rivolte. Insediò un governo di orientamento liberale per venire incontro al popolo, ma Garibaldi era ormai alle porte per proclamare il nuovo Stato. In tale frangente il nuovo monarca nominò in capo alla polizia il generale Liborio Romano. Questi si servì, alla stregua di Ferdinando II, della rinnovata camorra in “coccarda tricolore”, rinsediandola nella polizia occulta per controllare il popolo in rivolta. La soluzione, apparentemente efficace, permise l’ulteriore rafforzamento della consorteria, che in questo modo si avviò alla scalata verso gli alti vertici. 

Il periodo postunitario portò con sé ulteriori sommosse. Il racket estorsivo della camorra divenne pervasivo. Quasi su ogni attività commerciale veniva percepita un’esazione a nero. Non tardò la risposta della dittatura garibaldina. Venne nominato un nuovo direttore della polizia, Silvio Spaventa, di ala radicale. Le repressioni di Spaventa non bastarono, anzi. La camorra mise alla gogna Spaventa, il quale fu lo costretto ad esautorarsi dal proprio incarico.  

Grazie alla collusione con i monarchi e alla complicità degli apparati istituzionali succedutisi, la camorra crebbe in influenza e potere economico-contrattuale. La criminalità si insinuò negli alti ranghi, pervadendo di legami clientelari la media borghesia. Smise di essere aristocrazia della plebe e divenne “alta camorra”. Subentrò nei nuovi meccanismi elettorali che facevano leva sulla clientela e “sulle funzioni di una peculiare figura sociale della realtà politico-amministrativa della Napoli di fine Ottocento, l’interposta persona” (Barbagallo, 2011, 36).

Il potere mafioso si consolidò al punto tale che chi passeggiava per Napoli era solito incontrare camorristi che erano soliti pavoneggiarsi per strada con i loro abiti eleganti e la loro posa caratteristica. Affibbieranno loro il nome di guappi da sciammeria; un termine dialettale che stava ad indicare i caratteristici abiti. L’ostentazione non durò a lungo. Nel 1907 il Processo Cuocolo contro la criminalità campana farà da spartiacque tra la nuova camorra, evoluta all’insegna del garantismo liberale, e la sua sparizione, incentivata dalla stessa politica liberale garantista, ora intenzionata a ridimensionarne il potere divenuto troppo pervasivo. 

Il regime fascista ed il secondo Dopo guerra

L’intervento del Regime Fascista fu oltremodo un duro colpo, ma agì prevalentemente in Terra di Lavoro su migliaia di mafiosi di provincia. Furono deportati e circoscritti nell’area di Albanova, attualmente riferibile a Casal di Principe, Casapesenna e San Cipriano, al punto che a cavallo tra le due guerre dell’organizzazione occulta non vi era più traccia. Rimasero i guappi di quartiere, ben descritti da Eduardo de Filippo nella commedia Il sindaco del rione Sanità, signorotti di quartiere che si atteggiavano a gestori dei conflitti popolari o vivevano dirimendo affari politici privati. Il guappo “è a suo modo il risultato di un mancato passaggio del camorrista al ceto dominante, […] e deve la sua funzione alla lentezza dell’integrazione totale della plebe nella vita politica e sociale di Napoli”. Egli (il guappo), è il risultato di una politica che ha rotto la delinquenza come l’organizzazione, “e l’ha però mantenuta come uno dei segni culturali del popolo in trasformazione” (Sales, 1988, 104). 

Il dopoguerra fu l’ultimo periodo di rinnovato sviluppo della criminalità campana. Il porto di Napoli continuò ad essere meta di rotte commerciali importanti, la città soffriva la grande forza lavoro inversamente proporzionale alle risorse disponibili. La fame patita che il conflitto mondiale portava con sé indusse gruppi di individui a ricavare merce dal lavoro a nero, vendendo gli utensili negli «scambi a grano»; reinvestendo il grano e ricavandone la differenza, di nuovo reinvestita nell’acquisto di stoffe e indumenti, rivenduti dentro e fuori la regione dai magliari.

Nacque così la magliareria. Negli anni Cinquanta, oltre ai guappi, non vi era più traccia della camorra gerarchica. Si trattava di una manovalanza isolata di gangsters, le carte di tressette. Questi possono essere considerati i nuovi mezzani o sensàli spariti dalla Terra di Lavoro sotto il Regime fascista. Le carte di tressette esercitavano il loro controllo principalmente sul mercato ortofrutticolo, che nel dopoguerra era rimasto l’unico business disponibile. Interponendosi tra il contadino e il grossista, imponevano i loro prezzi, sicché coloro che riuscivano a monopolizzare il mercato venivano soprannominati presidenti dei prezzi. Fra i più famosi ricordiamo Pasquale Simonetti di Nola, alias Pascalon ‘e Nola e sua moglie Pupetta Maresca. 

Il mercato ortofrutticolo era il principale sbocco, ma non tardarono ad emergere nuovi intermediari nel settore della magliareria. Proprio i magliari saranno un trampolino di lancio per la genesi dei nuovi clan. Incominciarono col riciclare i proventi in tali attività, spesso lecite, strumentalizzando imprenditori desiderosi di ampliare il proprio network di magliareria, relegati al ruolo di «prestanome». 

RIFERIMENTI

M. Monnier, La camorra, Edizione di storia e studi sociali, Perugia, 2014. 

De Blasio A. (1993) (a cura di), Usi e costumi dei camorristi: storia di ieri e di oggi, Napoletanina Tascabile, Napoli. 

Barbagallo F. (2011), Storia della camorra, Laterza, Roma-Bari. 

Sales I. (1988), La camorra Le camorre, Editori Riuniti, Roma. 

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Psicologo, con esperienza maturata in ambito organizzativo. Ha conseguito la laurea in psicologia del lavoro con una tesi sul work-life balance.
Co-fondatore de Il Controverso, cura la rubrica #SpuntidiPsicologia e scrive di tematiche riguardanti la criminalità organizzata.

"Scrivo perché amo andare a fondo nelle cose"

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