Si dice che quando guardi ripetutamente gli stessi film ambientati nelle stesse città, popolati dagli stessi personaggi, è come se quegli stessi attori li conoscessi intimamente, come se riuscissi ad interpretare i loro gesti, la loro mimica. E non dovresti stupirti se un giorno ti passa per la testa lo schiribizzo di alzare il telefono e immaginare di poter parlare con loro, di raccontare loro quello che ti è successo durante la giornata, di chiedergli “come stai?”, “ma quand’è che ci vediamo?”, “ma tu di questa cosa che ne pensi?”, come se fosse il tuo migliore amico, come se quella persona ti conoscesse da sempre.
Io non lo so se agli altri accade lo stesso, ma a me sì, e fin da quando per la prima volta, da bambina, vidi quel signore con i capelli ricci ricci che tentava in tutti i modi di far muovere un vaso con la sola forza di volontà, perché “po’ ce chiamm a televisione”; oppure quando lo stesso signore si ritrovava catapultato nel 1492, “quasi millecinque” e corteggiava un attonito Leonardo Da Vinci, insegnandogli a giocare a scopa e spiegandogli come si costruisce un treno; oppure quando, incredulo e deluso, con accanto una donna che aveva bisogno di mille attenzioni, aveva sentito alla radio che il Napoli stava perdendo con il Cesena.
Oggi avrebbe compiuto 70 anni, se non fosse stato che quel 4 giugno 1994, in una casa al Lido di Ostia all’età di 41 anni, si spense, stroncato da quel cuore ballerino che aveva smesso di battere. Dodici ore prima portava una bicicletta tra le strade della magnifica isola di Procida, perdendosi nei sublimi occhi di Beatrice, navigando tra i versi del poeta Neruda e non volendone sapere di voler guarire dalla malattia più bella di tutte: l’amore.
E proprio l’amore è divenuto il sempiterno protagonista del suoi film: ha saputo raccontarlo nelle sue caleidoscopiche sfaccettature, non ignorando l’impronta dell’amarezza che di tanto in tanto invischia chi ne è coinvolto. A volte, amore fa rima con disincanto: quando, nonostante la ferrea convinzione di amare una persona, ci si rende conto che tutto quel sentimento, quelle sensazioni fortissime possono svanire da un momento all’altro, lasciando il passo alla consapevolezza che forse “un uomo e una donna sono le persone meno adatte a sposarsi tra di loro”. Oppure, al contrario, talvolta per amore si è disposti ad accettare persino di crescere il figlio che la donna che ami ha concepito con un altro e magari chiamarlo Ugo o Ciro, perché Massimiliano altrimenti nasce scostumato.
Qualunque concetto, qualunque pensiero riconosceva un’unica e sola lingua: il napoletano; ché in italiano le parole non sono colorite, non rendono appieno il senso graffiante, umoristico, ironico, malinconico di ciò che si vuole esprimere. Eppure il retaggio di essere nato in terra partenopea, di averne assorbito ogni tradizione, ogni abitudine, la gestualità quasi esasperata, era un pesante bagaglio da trascinarsi dietro. Essere napoletano implicava il fare i conti con il peso di un patrimonio invecchiato goffamente, i cui segni distintivi erano il mandolino, gli spaghetti ed il mare; non c’era spazio per le mille altre sfumature che abitavano – e abitano tuttora – la cultura partenopea.
Eppure, nei suoi film, nei suoi proverbiali sketch con “La smorfia” non c’era alcuna traccia di spaghetti, pizza e mandolino: di partenopeo v’era solo la lingua e importanti riferimenti al teatro eduardiano o al cinema di Totò, senza quella spocchia di chi vuole dimostrare di sapere e poi non sa. Al contrario, lui era “umile, ma onesto”.
L’eredità che ci ha lasciato non conosce rivali: anche oggi, a distanza di quasi 30 anni dalla sua morte, la sua anima continua a respirare tra le strade di Napoli e non solo; le sue proverbiali battute sono parte acquisita ed integrante del lessico partenopeo: quando bisogna ricordarsi giocoforza qualcosa, non si può fare a meno di dire, con tono canzonatorio, “sì, sì, mo me lo segno”; quando si deve tirar fuori qualcuno dalla propria comfort-zone, viene subito in mente “Robertì, esci, va a arrubbà, va a tuccà e femmene”; e quando proprio gira male ogni cosa, seppur si è consapevoli che la vita bisogna prenderla come viene, “a me me vene semp na chiaveca”.
“Morto Troisi, viva Troisi” è il parossistico quanto preveggente titolo di un altro suo film, uscito nelle sale cinematografiche nel 1982. Per noi non è mai morto, perché i grandi sono così: sono geneticamente, congenitamente destinati all’immortalità, ma il loro essere “umani, troppo umani” li spinge oltre i confini del fisico, dell’empirico, consacrandoli sull’altare dell’eternità.
“Com’aggio cominciato a fare l’attore? Ero nù guaglione, ero andato a vedere un grande film, Roma città aperta. Me n’ero uscito da ‘o cinema con tutte quelle immagini dint’a capa e tutte quelle emozioni. Mi sono fermato ‘nu mumento e m’aggio ditto….Massimo, tu da grande devi fa ‘o geometra”.
Buon compleanno, Massimo.