Esattamente ottantatré anni sono passati dalla nascita di Fabrizio De André, importante cantautore genovese. Fin dal 1967, anno della pubblicazione del suo primo album “Volume 1”, il cantautore ha regalato molte canzoni, equiparabili a poesie e specchio dei sentimenti di un pensatore intellettuale.
Era l’11 novembre 1971 quando pubblicò uno dei suoi più celebri lavori, “Non al denaro non all’amore né al cielo”: un concept album, genere su cui spesso operava Faber – questo il suo soprannome. Come non omaggiarlo con uno dei suoi più noti capolavori, con cui illuminò il panorama musicale? Peculiare la sua genesi, una riproposizione di temi tratti dall’”Antologia di Spoon River”, capolavoro in versi del poeta americano Edgar Lee Masters, tanto amato da De André. Il cantautore lesse le sue poesie all’età di diciotto anni, dichiarando quanto gli fossero rimaste impresse in un’intervista con Fernanda Pivano, nota giornalista e critica musicale, nonché traduttrice della stessa antologia.
In quelle narrazioni, il cantautore genovese ritrovava nei personaggi tratteggiati da Masters qualcosa di sé. Probabilmente il movente della sua operazione artistica fu riproporre, attualizzandole, quelle storie da cui era stato tanto affascinato e trascinato.
La prima traccia dell’album è “La collina”, un esplicito riferimento spaziale, un nodo centrale di tutti gli epitaffi di Masters e, consequenzialmente, delle canzoni-poesie di Faber.
In questo testo è presentata una ricerca a mo’ di elenco, una affannata ricognizione non di cose, ma di persone. A tratti appare macabro per i tristi epiloghi che hanno travolto i poveri personaggi fino a che, all’esplosione nel ritornello, rivolge l’attenzione a questi ultimi, i quali sembrano essere stati trovati a “dormire” sulla collina: da Elmer, lasciatosi morire di febbre, fino ad Ella e Cat, decedute “una di aborto, l’altra d’amore”. Nell’ultima strofa spunta anche il suonatore Jones, che ritroveremo più avanti nell’ascolto, all’ultima traccia.
Trattasi di un vero e proprio cimitero, nel quale avrebbero potuto trovare riposo le anime… ma, per quanto in questo brano si delinei quale sarà il luogo d’interesse, non si accenna (fatta eccezione del succitato Jones) ai protagonisti delle successive tracce. I quali verranno – per certi versi – “generalizzati”. A “La Collina”, difatti, seguono “un matto”, “un giudice”, “un blasfemo”, “un malato di cuore”, “un medico”, “un chimico”, “un ottico” e, solo alla fine, “il suonatore Jones”.
“Un matto” presenta, a differenza degli altri ma similmente ad “un blasfemo”, una didascalia: “dietro ogni scemo c’è un villaggio”. Matto è chi ha un mondo nel cuore ed è impossibilitato a comunicarlo: nel villaggio che ride, è lo scemo che passa, sognando di loro anziché di se stesso. Tutti gli sforzi di farsi ascoltare furono vani, persino «imparare la Treccani a memoria» gli impedì di venir letto matto. Perse la vita in un manicomio, arrivò sulla collina continuando a sentirsi bisbigliare che una pietosa morte lo avesse strappato alla pazzia. È interessante che dietro ogni matto c’è un villaggio, e non viceversa. Il vociare, la calunnia, o forse solo l’ignoranza?
“Un giudice” è la storia di un nano il quale, sfiancato delle continue canzonature legate al suo aspetto fisico, in continuazione giudicato a causa del pregiudizio e della maldicenza – che insiste battendo la lingua sul tamburo – risuonando da bocca a bocca, decise di studiare per diventare procuratore. Solo così poté giungere alla cattedra di un tribunale, divenendo “Giudice, finalmente, arbitro in terra del bene e del male”: da giudicato a giudice, questo il circolo ermeneutico del testo- purtuttavia accorgendosi egli stesso di non conoscere affatto la statura di Dio solo in ultima analisi.
“Un blasfemo”, ucciso da due guardie bigotte – e non dalla morte – convinto che Dio, imbrogliando il primo uomo, lo costrinse a viaggiare per tutt’una vita da scemo, spingendolo a non credere al bene e al male. Qualcuno dice dall’alto della collina che colui il quale l’ha inventato lo costringe a sognare in un giardino incantato… l’Eden? O forse questa realtà? “Dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato”.
“Un malato di cuore” è chi prova a sognare con chi non può essere presente, bloccato dalla propria condizione fisica ma pronto a volare col pensiero o, meglio, con l’anima- “Cominciai a sognare anch’io insieme a loro/ poi l’anima d’improvviso prese il volo“. In una vita di sacrifici ed evitamenti (privazioni?), si permetteva solo di avvertire lo spreco del proprio tempo e il vivere di narrazioni dagli occhi. Soltanto l’esplosione d’amore, di quel sorriso regalato, persuaso a contare i capelli, a contemplare uno sguardo di lei. E fu per sgomento ed estrema gaiezza di quegli attimi che il cuore impazzì, sull’orlo, forse, di esplodere. “E l’anima d’improvviso prese il volo/ ma non mi sento di sognare con loro”.
“Un medico”: “da bambino volevo guarire i ciliegi quando rossi di frutti li vedevo feriti […] per questo giurai che avrei fatto il dottore e non per un Dio ma nemmeno per gioco: perché i ciliegi tornassero in fiore”. Da un nobile e sensibile obiettivo quel bambino, colpito dai ciliegi di frutti rossi fioriti, perseguì la strada che lo avrebbe condotto a realizzare quel sogno. Dalle esperienze dirette sul campo apprese che la scienza non poteva essere regalata agli altri, diventò mero ingranaggio di un sistema da cui non deve essere preso per fame o nel quale non deve ammalarsi dello stesso male dei più. Tuttavia, furono dinamiche giuridiche a costringerlo in prigione, etichettato, come “inutile al mondo e alle sue dita”, “dottor professor truffatore imbroglione”.
“Un chimico” è quello studioso che ha dedicato la vita alle sostanze organiche e inorganiche, capace di saper sposare gli elementi e farli reagire. Deformazione professionale è il considerare la sua venuta alla collina – dovuta alla morte, unica capace di portarlo in quel tale luogo – come un dare fosforo all’aria. Ma se una vita dedicata alla chimica gli avesse conferito una certa conoscenza di tale ambito, proprio non si sarebbe riuscito a spiegare come potessero gli uomini combinarsi lasciandosi andare ad un “gioco”, l’amore. “È strano andarsene senza soffrire/senza un volto di donna da dover ricordare /ma è forse diverso il vostro morire /voi che uscite all’amore che cedete all’aprile”. La riflessione si allontana da questi versi, dall’ambito strettamente chimico, abbracciando il tema della relazione sentimentale ed erotica.
“Un ottico”, mercante di luce, l’oculista di chi non vuole più occhi normali, i clienti speciali. “Non più ottico ma spacciatore di lenti per improvvisare occhi contenti”, è uno dei testi più belli, che sembra invitare gli uomini ad avviarsi verso “l’isola che non c’è”, per richiamare qui, forse impropriamente, Edoardo Bennato. Il testo è non sintetizzabile. Può offrirsi solo alla lettura e riflessione dell’ascoltatore intellettualmente curioso.
Dulcis in fundo “Il suonatore Jones”, già incontrato in “La collina”: chi ha dedicato l’esistenza al suono, alla musica, coltivando il proprio cuore, diapason che vibra di suoni, come se venissero dalla terra. Gli piace lasciarsi ascoltare, facendo danzare la libertà… è lui che non rivolse mai un pensiero al denaro, all’amore né al cielo, da cui prende titolo l’intero album.
Tutti individui, protagonisti, simboli che incarnano altre diffuse identità, storie. Sono testi con messaggi propri e insieme universali, la cui essenza appare univoca di inno alla libertà e diversità. È proprio questo messaggio a venire generalizzato: dall’alto delle loro esperienze delle singole “figure” dai tratti e caratteri peculiari giungono a noi le sfumature rintracciabili in ogni luogo, in ogni villaggio, in ogni situazione.
Non al denaro non all’amore né al cielo: un capolavoro di poesia e musica, fresco come appena nato, nonostante abbia 52 anni.