Sorte e libertà, un conflitto molto antico e molto attuale

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Credete alla forza del destino?

Il problema è posto in termini molto chiari da Euripide che nell’Ipsipile, una tragedia di cui è rimasto qualche frammento, scrive:

“Oh pensieri mortali, oh vano errare degli uomini, che fanno essere a un tempo il destino e gli dèi.
Perché se c’è il destino, che bisogno c’è degli dèi. E se invece il potere è degli dèi, il destino non è più nulla”.

L’opposizione destino – libertà è, tra le antitesi, quella che maggiormente ha tormentato l’umanità nel suo pensarsi già decisa o in grado di decidere le proprie azioni. Ogni cultura, anche se ha già conosciuto la scienza e l’impostazione razionale del pensiero, possiede un certo numero di parole che adombrano il senso del destino. Tali sono “sorte”, “fatalità”, “caso”, “predestinazione”, “vocazione”. Sono cifre, non concetti. Su di essi gravita un’immagine del mondo che non è l’immagine che l’uomo s’è razionalmente costruito. Il destino sfugge alla logica della ragione che l’idea di casualità sostanzia, mentre la casualità sfugge al senso del mistero che il destino gelosamente custodisce.

A queste riflessioni ci induce Alessandro d’Afrodisia, grazie alla sua opera “Sul Destino” insieme al suo trattato su “L’Anima”. Nato ad Afrodisia di Caria, dove ancora è possibile visitare memorabili rovine presso il villaggio turco di Geyre, Alessandro visse tra il II e il III secolo d.C. ad Atene, dove per uno stipendio annuo di diecimila dracme, che all’epoca era una cifra favolosa, insegnava filosofia aristotelica nella “Scuola Superiore di studi filosofici” fondata dall’imperatore Marco Aurelio e finanziata dallo Stato. Amico del medico Galeno di Pergamo, con cui non mancarono fiorenti discussioni, Alessandro d’Afrodisia scrisse una serie di commentari ai testi aristotelici che costituirono una fonte così preziosa per la cultura filosofica araba e rinascimentale da determinare, nel Rinascimento italiano, la formazione di una corrente denominata “alessandrismo” con cui Galileo ebbe a polemizzare per liberare la nascente ricerca scientifica a sfondo sperimentale dall’ipoteca del procedimento deduttivo di matrice aristotelica.

Ma torniamo alla figura del destino che la più antica cultura mediterranea raffigura come una dèa che, con il fuso e il filo, tesseva il destino degli uomini. I suoi nomi, a seconda delle regioni del Mediterraneo, sono Ilizia, la Nascita; Rapsò, la Tessitrice; Adrastia, l’Implacabile; Aisa, l’Equità; Nemesi, la Giusta Assegnazione; Moira, l’Assegnatrice delle parti, da cui deriva la parola Heimarmene che, nel greco classico e nella cultura gnostica e fino al V secolo dopo Cristo, designa il destino.

L’idea di destino percorre la cultura greca da Omero ai tragici dove ciascun personaggio, epico o tragico, interpreta la “parte assegnata dalla volontà o dalla mente di Zeus”. Ciò significa che l’uomo è assistito dalla provvidenza di Dio come nella concezione cristiana, ma che l’uomo non è padrone del proprio destino il quale tesse il suo disegno in quella dimensione trascendente che l’uomo non può controllare.

Ma una prima eccezione a questa visione del mondo l’abbiamo nell’Odissea dove si racconta di Egisto, l’amante di Clitennestra e l’istigatore dell’assassinio di Agamennone, che di sua iniziativa “ha aggiunto” al destino assegnatogli la propria azione delittuosa e il castigo conseguente. Una seconda eccezione la troviamo in Senofane, secondo il quale l’uomo inventa e introduce nella realtà naturale cose che gli dei non avrebbero mai fatto apparire.

Qualcosa dunque sfugge al destino e precisamente: la morale e la tecnica. Se tutto dipendesse dal destino, nessuna azione sarebbe imputabile e ,quindi, nessuna morale sarebbe possibile. Allo stesso modo se nulla nella natura potesse essere mutato, anche la tecnica, che in parte modifica l’ordine della natura, sarebbe impossibile. Con questo doppio registro, dove accanto al destino si ammette quel margine di libertà che rende possibile la fondazione di una morale e la pratica della tecnica, giungiamo all’età di Pericle, V secolo a.C., dove il destino viene ridotto a due figure: la necessità della natura (ananke), che agisce in maniera meccanica e deterministica, e il caso (tyche) che, come precisa Anassagora, dipende dall’ “ignoranza delle cause”.

Il conflitto tra destino e libertà si ripropone a Platone e ad Aristotele. Per Platone l’anima di ogni uomo sceglie, davanti alla dea Necessità e alle tre Moire, il demone che si incarica di sorvegliare lo svolgimento del destino, ma dipende dall’anima la scelta del suo demone. Più pragmaticamente, invece, Aristotele afferma che ciascuno di noi non può essere diversamente da come è stabilito dalle abitudini che ha contratto, ma dipende da lui condurre queste o altre abitudini, per cui, anche se le sue azioni finiscono poi con l’essere delle abitudini condizionanti, la scelta delle abitudini è per principio in suo potere. Aristotele, inoltre, ad un livello speculativo più elevato, introduce, accanto alla figura della necessità, per cui ciò che è in potenza si traduce senz’altro in atto, e dell’impossibilità, per cui ciò che è in potenza non si traduce mai in atto, la categoria della possibilità, per cui ciò che è in potenza può tradursi o non tradursi in atto. Nella categoria del “possibile”, che è la categoria esposta al “non-essere”, trova la sua fondazione la figura della libertà come emancipazione dalla necessità del destino.

Da buon commentatore aristotelico, Alessandro d’Afrodisia sposa la tesi di Aristotele rafforzandola con quegli argomenti cosmologici per cui gli astri, corrompendosi, subiscono delle alterazioni e delle deviazioni imprevedibili, per cui nessun evento è più necessario, ma solo possibile.

Dello stesso avviso di Alessandro d’Afrodisia è l’astrologo Tolomeo, suo contemporaneo, mentre il medico Galeno, compagno di studi di Alessandro, ritiene che anche la corruzione terrena, responsabile della nascita e della morte di tutte le cose, con cui la natura garantisce il suo ciclo, segue il ritmo della necessità, mentre l’idea di possibilità e libertà dipende solo dall’ignoranza delle leggi che presiedono questo ritmo.

Non è questa una polemica da confinare nella curiosità dell’antichità che la “modernizzazione” dei nostri studi liceali può portare a trascurare. Quel che allora si discuteva si ripropone parimenti nell’età moderna con la nascita della scienza, che pensa a sé stessa in modo deterministico, e con la divisione tra cattolici e protestanti, dove decisivo è il problema della libera scelta o della predestinazione.

Lo stesso dicasi per l’età contemporanea dove la psicoanalisi fa dipendere lo spazio della libertà dai limiti imposti dall’ordine pulsionale, e, più recentemente, la genetica che, restringendo i margini di libertà, riduce quelli della responsabilità e dell’imputabilità su cui sono cresciute tutte le morali che sono state scappellate nella storia.

Alessandro d’Afrodisia rifiuta il destino perché altrimenti la morale sarebbe impossibile. L’argomento, come si vede, è debole: sarebbe come negare che ciascuno di noi abbia una sua determinata identità, perché questa determinazione ridurrebbe gli spazi della libertà. Identità e libertà sono infatti tra loro conflittuali, come lo sono destino e libera scelta.

Il problema è a tutt’oggi insoluto.

Ma una cosa non va trascurata: la libertà si fonda sulla possibilità di fare accadere o non accadere qualcosa. Quindi è lo spazio del nulla, il non accadere, quello che rende possibile la libertà. E allora, perché tanto accanimento sulla tendenza filosofica del nostro tempo definita “nichilistica”, se la riflessione sul nulla è l’unica riflessione che concede un margine alla possibilità della libertà?

Prima di farsi terrorizzare o ipnotizzare dalle parole, occorre prenderle in considerazione e soprattutto pensarle. Bisogna riflettere molto, prima di pensare.

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