Quando Giancarlo Siani venne brutalmente ucciso sotto casa sua era il 1985. Allora qualsiasi speranza di diventare giornalista per meriti era una speranza malriposta, un privilegio. La differenza tra pubblicisti e giornalisti professionisti era rimarcata dal colore del tesserino. Per i pubblicisti il tesserino era verde. Diventare giornalista professionista voleva dire averne uno di colore amaranto. Proprio quel tesserino era il sogno e l’aspirazione di Giancarlo Siani. Per raggiungere quel traguardo – che lo aveva spinto ad abbandonare i suoi studi in sociologia alla Federico II – aveva scelto di fare il cronachista e di raccontare la verità.
Giancarlo Siani preferì sin da subito agli studi universitari l’impegno sociale. La sua tenacia e la concretezza si riversarono dapprima nell’esperienza del Movimento Democratico per il diritto all’informazione: un movimento che fondò assieme ad alcuni colleghi. Il giornalismo era il mezzo, lo strumento con il quale raccontare la realtà, per cercare di resistere, di trovare un riscatto dalle diseguaglianze sociali e dall’indifferenza delle istituzioni, specialmente in un territorio complicato e ricco di contraddizioni quale è il Sud. I suoi primi articoli li scriverà per la rivista mensile “il lavoro nel Sud”. Giancarlo si occupava di tante cose: di lavoro, della città e dell’abusivismo edilizio, di camorra. La cronaca nera era il suo forte, tanto da riuscire ad ottenere un apprendistato per il Mattino presso la sede distaccata di Castellammare di Stabia, come corrispondente da Torre Annunziata. In quegli anni i clan di Torre Annunziata e del Vesuviano erano in pieno tumulto. Il business del contrabbando di sigarette lasciava il posto al narcotraffico e agli appalti post-ricostruzione del terremoto dell’80.
La camorra di Marano era oramai affiliata a Cosa Nostra. I Nuvoletta, i Gionta ed i Bardellino-Alfieri erano tra i principali clan vincenti nella faida contro la NCO di Cutolo. Fu in quegli anni che iniziò anche la sua collaborazione per l’Osservatorio sulla Camorra, periodico diretto dal professore e sociologo Amato Lamberti. Con grande determinazione Giancarlo scrisse senza risparmiarsi; raccontò dell’ascesa di Valentino Gionta, delle attività legate al racket, della collusione di politici e imprenditori, con uno stile giornalistico semplice e diretto. Dai suoi scritti, ripubblicati post-mortem in diverse edizioni, si nota quanto Siani non riportasse solamente quanto appreso, ma tessesse le trame e le possibili ipotesi dietro gli avvenimenti, insinuando in maniera impavida le plausibili motivazioni, in modo ragionato e mai scontato. Con penna e taccuino Giancarlo Siani era sempre pronto ad andare sul posto, tra la gente, sulla scena del crimine. Tutti, dal sindaco, al pretore, al comandante del comando dei carabinieri lo conoscevano. La sua missione giornalistica non si esauriva nel fatto, ma in una ricerca dei nessi che maturavano dal fatto stesso.
In che misura fosse consapevole dei rischi a cui andava incontro è un interrogativo che spesso si lega alla sua figura. Bisogna immaginare che fino ad allora nessun giornalista era mai stato ucciso dalla camorra. È immaginabile che Siani nutrisse dei dubbi sulla sua incolumità, ma non più di una sana preoccupazione tipica di un giornalista impegnato nella cronaca nera che riceve minacce. Nel 1996 – ad undici anni dalla sua scomparsa – la verità emerse dalla dichiarazione di un pentito all’allora procuratore Armando D’Alterio. Il motivo sarebbe stato un suo articolo pubblicato a giugno del 1985. Scriveva Siani sul giornale pochi giorni dopo la cattura del boss Valentino Gionta in un articolo intitolato “Camorra: gli equilibri del dopo – Gionta”:
“Dopo il 26 agosto dell’anno scorso il boss di Torre Annunziata era diventato un personaggio scomodo. La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di «Nuova famiglia», i Bardellino”.
Secondo l’imputato, inizialmente scelto come uno dei killer, l’insinuazione di Giancarlo Siani sulla combutta tra i Bardellino e i Nuvoletta contro il loro alleato Gionta risuonava nelle orecchie dei fratelli Angelo e Lorenzo Nuvoletta come un’onta. I Nuvoletta erano un’emanazione di Cosa Nostra, a stretto contatto con Totò Riina, il quale svolse parte della sua latitanza proprio in Campania. Cosa avrebbe pensato Riina dei suoi alleati e cugini Campani? Potevano permettersi i Nuvoletta un siffatto affronto? Tanto sarebbe bastato a decidere di assassinarlo. Qualche anno prima, lo stesso Amato Lamberti fu di un parere diverso. Per il direttore dell’Osservatorio sulla camorra si sarebbe trattato di:
“[…] un delitto politico. Non mi risulta che si sia mai dato il caso di giornalisti ammazzati dalla camorra o dalla mafia […]. […] Una delle ragioni poteva essere che qualcuno avesse detto guarda che questo rompe le scatole, sta girando troppo, portatelo (alla sede del Mattino) a Napoli” (Franchini, 2001, 90)1.
Del resto le “insinuazioni” di Siani andarono ben oltre le logiche dei clan ed era arrivato a comprendere le cointeressenze – allora emergenti – tra politica, camorra e imprenditoria. Già nel 1981 scriveva sul quotidiano il lavoro nel Sud:
“…Cominciano a piovere i primi soldi su Napoli ed è subito truffa, lavoro nero…L’ipotesi di aprire un capitolo nuovo per la città cogliendo l’occasione della ricostruzione rischia di svanire già in questa prima fase di riattivazione degli edifici danneggiati. Che i lavori si stiano facendo si vede; eppure il livello occupazione ufficiale non registra nessun sensibile aumento…“
Siani era molto addentro ai fatti, al punto da aver ultimato un volume-dossier intitolato “Torre Annunziata un anno dopo la strage”, mai ritrovato e del quale parlò in una lettera ad un’amica prima di morire. La sera del 23 settembre 1985 i due killer aspettarono il giovane pubblicista sotto casa. Venne crivellato mentre era all’interno della sua inconfondibile Citroën Mehari di colore verde. Aveva 26 anni.
L’uccisione di Siani, dunque, rappresentò un violento colpo alla libertà di espressione ed alla tutela degli operatori del giornalismo italiano. Fu la dimostrazione evidente dell’impunità delle mafie e dello strapotere delle stesse in certe aree del Paese. Ma, del resto, se i camorristi non si sono fermati neanche davanti ad un prete (Don Giuseppe Diana), certamente l’isolamento, la precarietà e la potenza delle parole di Giancarlo Siani sono state la sua condanna.
Questo ci spinge a credere che le cause che hanno portato alla morte del giornalista sono ancora tutt’ora presenti, se l’Italia, nella classifica mondiale sulla libertà di stampa di Reporter Senza Frontiere, è crollata dal 41° al 58° posto nel giro di un anno. Oggi, come allora, la libertà di stampa, citando le parole del rapporto, è soggetta alla paura di ritorsioni da parte di gruppi estremisti o del crimine organizzato. È questa la realtà del giornalismo italiano: la verità non rende, le persone sono diventate sorde ad essa e gli operatori sul campo non hanno sufficienti tutele.
E se il giornalismo tasta il polso della libertà di un paese e l’informazione rende le persone libere e consapevoli, allora la libertà in questo Paese sta, lentamente, morendo in una lenta e silenziosa agonia, la stessa che ha subito Giancarlo Siani.
Riferimenti
- Franchini, A. (2001). L’abusivo. Marsilio Editori. Venezia.
- https://www.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/giancarlo_siani.pdf
Psicologo, con esperienza maturata in ambito organizzativo. Ha conseguito la laurea in psicologia del lavoro con una tesi sul work-life balance.
Co-fondatore de Il Controverso, cura la rubrica #SpuntidiPsicologia e scrive di tematiche riguardanti la criminalità organizzata.
"Scrivo perché amo andare a fondo nelle cose"