C’è chi la chiama ironia della sorte, chi la ribattezza come rigurgito di un passato nemmeno troppo lontano, chi ancora parla di una nostalgia mai troppo sopita, e chi, invece, non vede l’ora che la storia – un certo tipo di storia – si ripeta.
I più coraggiosi, coloro i quali per intrinseca natura tendono a sdrammatizzare anche il dramma più funesto, guardano alla vicenda con incauto sarcasmo; eppure probabilmente il modo più appropriato per affrontare il ritorno a cent’anni fa non è altro che l’ironia tragica.
L’ironia tragica era un vecchio espediente teatrale, usato nell’antica Grecia dai più celebri tragediografi – tra i quali si ricorda soprattutto Sofocle – in virtù del quale le parole pronunciate da un personaggio, in un momento di apparente serenità, preannunciavano, senza che egli ne fosse consapevole, il presagio dell’imminente catastrofe.
La tragedia greca non passa mai di moda, si sa, ma una realizzazione così perfetta di ciò che si intendeva per ironia tragica non si vedeva da anni – forse esattamente cent’anni.
Non è forse tragicamente ironico che una donna, candidata alle prossime elezioni, voglia introdurre il diritto a non abortire? Non è forse tragicamente ironico che la stessa donna coltivi la ferrea convinzione che l’obesità, la tossicodipendenza, l’alcolismo siano tutte “devianze” e tutte vadano “curate” allo stesso modo? Non è forse tragicamente ironico che sempre lei, come se non bastasse, per ingannare i più razzisti e xenofobi, parli di blocco navale, violando norme fondamentali di diritto internazionale ed europeo?
La risposta a questi molteplici interrogativi è una e una soltanto: no. Non siamo nel bel mezzo di un’opera sofoclea, in cui se l’eroe tragico sbaglia, v’è sempre un significato sotteso, un senso che dapprima sfugge e poi dopo emerge con tutta la sua limpidezza. Al contrario.
Siamo nel bel mezzo di un baccanale in cui non si comprende dove finisce la realtà e dove inizia la finzione. Perché, diciamocelo, in un’Italia in cui ci sono Regioni dove più dell’80% dei medici si dichiara obiettore di coscienza, garantire il diritto a non abortire è il paradosso dei paradossi. Perché non vi è alcuna normativa o legge che costringe le donne incinte a procurarsi l’interruzione (in)volontaria di gravidanza; al contrario, quella stessa legge, meritevole di aver depenalizzato l’aborto, ha ormai perso la sua efficacia.
E ancor di più, si smarrisce la percezione di ciò che è reale e ciò che è fittizio, quando si tacciano come “devianze” i disturbi alimentari, l’alcolismo, l’autolesionismo, il bullismo, la ludopatia ed il tabagismo. E, rullo di tamburi, la cura per sopprimere questi “vizi” è unica e sola: si chiama sport. Eppure, è alquanto bizzarro pensare che se si fumano due pacchetti di sigarette al giorno, si possa facilmente smettere, semplicemente andando in palestra; né ben si capisce come il praticare sport possa essere un efficace antidoto contro l’anoressia; ma, domanda delle domande, se si va costantemente in palestra, si smette di essere bulli?
Oppure è un assurdo azzardo considerare che le devianze – quelle vere, però – appartengano a chi, impudicamente e senza discrezione alcuna, pubblica un video di uno stupro su un social sol perché lo stupratore era non-italiano, per inneggiare al più bieco razzismo, dando in pasto ai più la pornografia del dolore, disattendendo nel modo peggiore possibile il diritto alla privacy della vittima?
Non finisce di certo qui: addirittura, ci si fa portavoce del parossistico pensiero secondo il quale i diritti della comunità LGBTQA+ sarebbero assicurati sotto ogni aspetto. D’altronde, è solo un caso che quotidianamente siano perpetrate violenze a danno di chi semplicemente chiede a gran voce di essere se stesso, senza discriminazioni, senza violenze da subire, senza sguardi giudicanti e affilati come lame.
Eppure non si è ancora giunti alla stravaganza delle stravaganze, al sofisma dei sofismi: chi predica questo folle disegno non vive nel 1922, bensì nel modernissimo e progressista 2022.
E allora non ha torto chi già nel non troppo lontano 1947 parlava di “fascismo senza distintivi”, dichiarando che “mutato l’aspetto esso penetra – morbido e ingannevole contagio – nei rifugi più numerosi e sicuri e nel nome profanato della Patria, della libertà, della democrazia, della religione, ricostruisce le sue forze che valgono più delle sue insegne[1]”.
Perché no, qui non si è al cospetto del tanto millantato “eterno fascismo”; la realtà ben diversa e più prosaica è tutt’altra: il fascismo non è mai morto, ché a fare i complimenti a questa democrazia “ci vuole fantasia”, diceva Giorgio Gaber. E non è certamente il simbolo di una fiamma tricolore all’interno dello stemma di un partito che ce lo ricorda, ma questo prepotente rigurgito, quest’intollerabile nostalgia, questo ben nascosto ripudio dell’antifascismo, quest’incedere accanito e perseverante nel rinnegare l’Unione europea, questo votarsi ad un dio che non c’è per affermare le proprie pretese velleitarie, quest’antitesi lapalissiana contro qualunque conquista civile, quest’incessante negazione di qualunque libertà guadagnata con sangue e sudore, quest’incrollabile diniego dell’uguaglianza sociale (e non solo).
Del resto, che male c’è a festeggiare il centenario del 27 ottobre 1922, sfilando su Roma vestiti di nero?
[1] Concetto Marchesi, Rinascita, giugno 1947.