La rappresentazione delle donne nelle pubblicità

Tempo di lettura: 8 minuti
La comunicazione è figlia della società in cui nasce, ma può mostrarle come essere migliore

È il motto di Hella Network, un network di professioniste che lavorano nella pubblicità, nel marketing, nell’editoria e nel giornalismo, che si batte per una comunicazione più inclusiva e la parità di genere.

Il linguaggio e la comunicazione sono gli elementi tramite cui assorbiamo concetti e valori.
La pubblicità, nello specifico, ha lo scopo di vendere, ed è ovunque: in televisione, nei cartelli pubblicitari stradali, sui social media. Le pubblicità hanno un forte impatto nelle nostre vite: invadono i nostri telefoni, le nostre case, i nostri sensi. Per questo motivo, influenzano il modo in cui si percepisce la realtà e, di conseguenza, quello in cui la si vive. Con la pubblicità vengono intenzionalmente trasmessi dei messaggi, che vanno poi a definire il nostro modo di pensare, agire, vivere.

Ebbene, l’iconografia pubblicitaria, nel tempo, ha strutturato – influenzando, appunto, la visione da parte della società – diverse figure femminili stereotipizzate: la donna casalinga, la donna erotica, la donna perfetta, la donna sottomessa. Un comun denominatore ai vari scenari è quello del sessismo: il corpo femminile viene oggettificato per vendere il prodotto. Nella pubblicità mainstream, i corpi delle donne sono marginalizzati, sono relegati in un contesto specifico. Il corpo della donna viene oggettificato e deumanizzato, con lo scopo di incastrare la donna in una sfera che è quella dove si vuole che resti.

La donna casalinga

Un esempio classico è quello delle pubblicità che accostano i prodotti per la casa alla figura femminile. O, ancora, quelli in cui è la donna a cucinare o preparare la colazione mentre l’uomo esce di corsa da casa, in giacca e cravatta, per andare a lavorare. Fin da piccoli/e vediamo in televisione pubblicità di giochi per bambini/e che si basano su una visione binaria e stereotipi di genere: per le bambine i trucchi, le bambole, le cucinette; per i bambini le macchine, i camion, le officine con attrezzi, i supereroi.

Lo stesso avviene con i colori. A tal proposito, molto interessante il progetto fotografico “The Pink and Blue Project” dell’artista sudcoreana JeongMee Yoon, che ha esplorato l’associazione di un determinato colore a un genere, rendendo evidente come la differenza tra gli oggetti dei bambini e quelli delle bambine influenzi il loro comportamento. Infatti, la maggior parte dei giocattoli, realizzati con sfumature di blu, sono legati alle macchine, ai treni, ai dinosauri, ai robot o agli attrezzi. Mentre, quelli con sfumature rosa rappresentano cucine, bambole, peluche, trucchi, accessori di moda. Insomma, ciò che assolve a una funzione di cura.

Le ragazze si allenano inconsciamente a indossare il colore rosa per sembrare femminili. Eppure, un tempo il rosa era un colore associato alla mascolinità, una versione annacquata del rosso – colore associato al sangue e alle battaglie – più adatta alla vita sociale. Addirittura, si consigliava di usare il rosa per i bambini e il blu per le bambine, fino a quando, intorno agli anni ’40, vi è stata una inversione di tendenza.
Possiamo pensare, a questo punto, di dover superare una volta per tutte l’associazione colore/genere per poter uscire da schemi stereotipati?

Come si legge nel Progetto, “questo tipo di linee guida divise per i due sessi influenzano profondamente l’identificazione del gruppo di genere dei bambini e l’apprendimento sociale”. Da ciò si crea intenzionalmente lo stereotipo socioculturale, perché le persone destinatarie non sono in grado di elaborare e metabolizzare il messaggio veicolato.
Ad esempio, rappresentare le donne come uniche consumatrici dei prodotti per la casa, o come uniche in grado di crescere figli e figlie, comporta che chi guarda assimila il concetto per cui è la donna l’unica a doversi occupare di faccende domestiche e di cura. Ed è così che la donna viene relegata al focolare domestico.

A proposito di questo tipo di pubblicità risulta molto interessante la Relazione del Parlamento europeo sulla discriminazione della donna nella pubblicità del 1997, in cui si legge:

La discriminazione differenziata della donna viene contestata più raramente dall’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria tedesco. Con discriminazione differenziata il Ministero federale tedesco per la donna e la famiglia intende fra l’altro quelle pubblicità che rappresentano le donne quali uniche consumatrici di prodotti per la casa. A giudizio dell’Istituto di autodisciplina si tratta di modi di vedere che non tengono conto della realtà”.

Restando su questo tema, ha creato scalpore la campagna pubblicitaria della Chicco del dicembre 2021, ambientata nel periodo delle festività natalizie. Nello specifico, tramite qualche asterisco qua e là, si rappresentava il papà come “alleato perfetto per giocare con tu* figl* quando non ci sei”. Quindi, innanzitutto, i figli e le figlie sono, evidentemente, solo della mamma – “tuoi”, non vostri – e il padre subentra solo quando lei non può esserci. Poi, il padre veniva rappresentato come un alleato, un estraneo che aiuta, che è “sempre disponibile per ogni lavoretto casalingo”. Non organizza, né monitora le faccende domestiche, ma è un esecutore di queste, su richiesta.
Ovviamente, in questa campagna pubblicitaria, la figura del papà appariva rigorosamente in veste da lavoro: camicia e cravatta. Basta guardare le immagini per capire l’intento lapalissiano del messaggio a livello visivo, oltre quello esplicito della didascalia, di trasmissione di un modello genitoriale purtroppo molto diffuso.

Questa pubblicità non solo riproduce un’immagine stereotipata della donna e dell’uomo, ma, usando l’asterisco – che rappresenta uno dei modi per poter utilizzare un linguaggio inclusivo – raffigura un modello unico di famiglia, eteronormata, basata sull’uomo e la donna.
Quindi, mi raccomando, usiamo gli asterischi per rafforzare concetti sessisti e binari!

La donna erotica

Continuando ad analizzare l’iconografia pubblicitaria, si osserva che le donne sono all’interno di due tipi di pubblicità. Uno è, appunto, quello per la vendita di prodotti per la casa e la cura di figli/e. L’altro è quello che ha ad oggetto prodotti destinati per lo più ad un target maschile e crea la figura della donna erotica e maliziosa. In questo tipo di pubblicità, per inviare messaggi di matrice sessuale, le donne sono rappresentante seducenti, ammiccanti, in chiave provocante, sensuale.

Gli esempi sono vari: dalla donna che viene chiamata per lavori di tinteggiatura o idraulica, ma semi nuda e provocante – perché, insomma, si sa che è necessario per poter svolgere questi lavori! – alla donna che invita l’uomo a comprare una macchina con voce sensuale e seducente e pose ammiccanti.

Molto spesso, in questo tipo di pubblicità, la donna è frammentata, ossia rappresentata attraverso una sola parte del suo corpo, alla quale viene associata una frase o un’immagine a sfondo sessuale, con lo scopo di pubblicizzare il prodotto. Insomma, insieme all’articolo si acquista una parte del corpo femminile.

Quindi, casalinghe o seducenti, nelle pubblicità le donne si dividono tra la casa e l’adescamento.
A tal proposito, possiamo ricordare come la Rai, con il programma “Detto Fatto”, è stata in grado di unire questi due elementi, mandando in onda – proprio poco prima del 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – un tutorial su come fare la spesa in modo sensuale. Così possiamo essere casalinghe, ma seducenti!

La donna perfetta

Ma si rileva un altro aspetto fondamentale. L’oggettivizzazione del corpo femminile ha un duplice effetto. Da una parte, rappresenta un’ideale che le donne, fin da giovani, si sentono tenute a dover raggiungere e ciò influisce sull’autostima femminile. Vediamo corpi considerati conformi dalla società e non ci sentiamo sicure di vivere liberamente i nostri. Il settore della cura per il corpo (depilazione, intimo, prodotti per cellulite e smagliature, prodotti antirughe, rossetti, ecc.) manifesta ciò che si deve desiderare per poter raggiungere il livello ideale di “bellezza” voluto dalla società.

La donna sottomessa

D’altra parte, l’oggettivizzazione incide sulla visione che l’uomo ha della donna. La donna da soggetto diventa oggetto, una proiezione del desiderio dell’uomo.

Alla regia c’è il “male gaze”, lo sguardo maschile, ossia l’atto di rappresentazione delle donne da una prospettiva unicamente maschile. Le donne sono oggetti sessuali atti a soddisfare lo spettatore maschio. I media non fanno altro che avallare questa prospettiva; veicolano le immagini, in un senso dispregiativo e denigratorio nei confronti della donna.

Un esempio è quello della donna sottomessa. La donna che, inerme, viene immobilizzata e dominata dall’uomo virile. Alcuni spot in particolare sono stati oggetto di forti critiche, in quanto rappresentazioni di una erotizzazione e sessualizzazione della violenza di genere.

Eppure, la legge c’è.

All’art. 23 del Codice della Strada si legge:

È vietata sulle strade e sui veicoli qualsiasi forma di pubbli­cità il cui contenuto proponga messaggi sessisti o violenti o stereotipi di genere offensivi o messaggi lesivi del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici, del credo religioso o dell’appartenenza etnica op­pure discriminatori con riferimento all’orientamento sessuale, all’identità di genere o alle abilità fisiche e psichiche”.

E, prima ancora, il Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale stabilisce all’art. 9 che “La comunicazione commerciale non deve contenere affermazioni o rappresentazioni di violenza fisica o morale o tali che, secondo il gusto e la sensibilità dei consumatori, debbano ritenersi indecenti, volgari o ripugnanti”; e all’art. 10 si precisa che la comunicazione commerciale “deve rispettare la dignità della persona in tutte le sue forme ed espressioni e deve evitare ogni forma di discriminazione, compresa quella di genere”.

Ma, come sempre, al di là del diritto, risulta essenziale un cambiamento socioculturale.
Sicuramente, alcuni brand stanno lottando contro gli stereotipi di genere e contro alcuni tabù riguardanti il corpo femminile. Ma purtroppo, come sempre, la strada è lunga.

Cosa possiamo fare noi?

Dobbiamo educare a una cultura rivoluzionaria, che cambi la narrativa dominante sugli stereotipi. Dobbiamo cambiare la manifestazione e la rappresentazione dei corpi femminili legati a stereotipi appartenenti a una cultura patriarcale. È un lavoro che richiede impegno, tempo ed energie, ma è un lavoro che parte da ogni nostra piccola azione: parte dalle aziende che pubblicizzano i propri prodotti, parte dalle persone che lavorano a tali rappresentazioni, parte da noi che possiamo fare qualcosa quando vediamo che una pubblicità stona con i concetti di rispetto, di parità di genere, di autodeterminazione.

Concretamente, possiamo segnalare una pubblicità tramite il link messo a disposizione dall’IAP (Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria).

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Dottoressa in Giurisprudenza, abilitata alla professione forense, con un Master in Studi e Politiche di Genere. È un'attivista digitale, crea contenuti legali per Chayn Italia, una piattaforma che si occupa di contrastare la violenza di genere utilizzando strumenti digitali, ed è membro della Redazione de Il ControVerso. Scrive su attualità, diritti umani, privacy e digitale, inclusione, gender gap, violenza di genere.
Attualmente lavora nel settore dell'editoria libraria.

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