“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Questo è il principio di uguaglianza formale, disciplinato al primo comma dell’art. 3 della nostra Costituzione.
Al secondo comma, la disposizione sancisce, poi, il principio di uguaglianza sostanziale, secondo cui: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
L’art. 37 della Costituzione, poi, disciplina il divieto di discriminazione, in base al genere, nell’ambito del rapporto di lavoro – “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” – pur essendo la stessa disposizione impostata su una concezione patriarcale della società per cui l’attività lavorativa della donna è improntata prettamente sul rapporto con la maternità: la donna viene tutelata soprattutto col fine di consentirle la sua funzione materna… (si ricorda: “Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”).
Uscendo dai principi generali della Costituzione, nell’ambito del Diritto del Lavoro, sono diverse le normative che si occupano del divieto di discriminazione. Si tratta del Codice delle pari opportunità, della Legge n. 300/1970, ossia lo Statuto dei lavoratori, della Legge n. 903/1977, rubricata “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”; della Legge n. 125/1991, rubricata “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”; e del Decreto Legislativo n. 216/2003, rubricato “Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”.
Dunque, il principio di non discriminazione è costituzionalmente garantito. Lo stesso è richiamato in più disposizioni normative appartenenti all’ambito del Diritto del Lavoro. Ma poi, nei fatti, è realmente così?
Innanzitutto, bisogna premettere che l’art. 25 del Codice delle pari opportunità riporta una distinzione tra discriminazioni dirette e indirette.
La discriminazione diretta si verifica quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, produce un effetto pregiudizievole, discriminando una persona, in ragione del suo sesso. E, dunque, la stessa subisce un trattamento meno favorevole rispetto ad un’altra persona, in situazione analoga. Un esempio di questo tipo di discriminazione può essere la mancata assunzione o promozione di una donna in quanto donna, o perché incinta.
La discriminazione indiretta, invece, si ha quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, apparentemente neutri, determinano una situazione di svantaggio per determinate categorie. Non viene attuata direttamente una discriminazione nei confronti di una persona, ma le persone appartenenti a determinate categorie, proprio per un criterio distintivo, rischiano di subire indirettamente un danno. Un esempio di questo tipo di discriminazione potrebbe riguardare la previsione di un’indennità per i dipendenti che abbiano lavorato sempre in full-time, in quanto spesso le donne si trovano costrette a scegliere il part-time per poter conciliare il lavoro retribuito con quello di cura non salariato – che ha a che fare con la cura di figlie/i e con la gestione della casa – e, dunque, per una scelta socialmente imposta non avrebbero accesso a tale indennità.
Ebbene, in relazione al “soffitto di cristallo” – termine con cui si indica l’insieme delle discriminazioni, apparentemente invisibili, che ostacolano la parità di genere e la conseguente possibilità, per le donne, di accedere agli stessi diritti degli uomini nel mondo lavorativo – è importante analizzare i divieti di discriminazione, posti dalla normativa vigente, che riguardano l’accesso al lavoro e, dunque, tutte quelle pratiche riguardanti la sfera di assunzione, i criteri e le condizioni di selezione.
Già la Legge n. 903 del 1977, all’art. 1, stabiliva: “È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale.
La discriminazione di cui al comma precedente è vietata anche se attuata:
- attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza;
- in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso”.
L’art. 4 del d.lgs. n. 216 del 2003, ha, poi, introdotto ulteriori fattori di discriminazione – in aggiunta a quelli di razza, lingua e sesso, di cui all’art. 15 dello Statuto dei lavoratori – quali: convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale.
Infine, l’art. 27 del Codice delle Pari Opportunità, apportando qualche modifica rispetto al primo intervento legislativo in materia, stabilisce che: “È vietata qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, nonché la promozione, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”.
La disposizione prosegue specificando che: “La discriminazione di cui al comma 1 è vietata anche se attuata:
- attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive;
- in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso”.
Dalla lettura delle disposizioni riportare, si evince banalmente – anche se non per tutti è così banale – che è illegale, ad esempio, in sede di colloquio rivolgere a una donna domande circa la sua intenzione o meno di avere figli/e. O, ancora, in base al concetto di discriminazione anche solo potenziale, risulta illegale rivolgere un annuncio di lavoro specificatamente a un determinato sesso, escludendo l’altro.
Eppure, se nel 2022 c’è ancora bisogno di parlare del fatto che tali discriminazioni sono illecite, è proprio perché, nei fatti, alcune categorie sono ancora discriminate nella fase di accesso al lavoro, ancor prima di entrare nel discorso del gender pay gap. E, quindi, purtroppo non è così scontato che determinate discriminazioni legate al genere siano vietate dalla legge, oltre che appartenenti a una cultura di matrice patriarcale. Ad esempio, un annuncio di lavoro avente ad oggetto mansioni di segreteria, rivolto specificatamente alle sole donne è discriminatorio nei confronti degli uomini. Ma vi è di più. Lo è anche nei confronti delle donne, che verrebbero assunte sulla base al loro genere.
Nell’ambito della Relazione del Parlamento Europeo sulla discriminazione della donna nella pubblicità, si apprende che con “discriminazione differenziata” il Ministero federale tedesco per la donna e la famiglia intende quelle pubblicità che rappresentano le donne quali uniche consumatrici di prodotti per la casa. Si tratta di una visione che non tiene conto della realtà e si lega a stereotipi di genere. Lo stesso principio si può ben applicare nel contesto lavorativo: solo le donne sarebbero ritenute competenti a svolgere mestieri prettamente di cura, come, appunto, quello di segreteria, proprio in quanto donne. Eppure, sappiamo benissimo che gli uomini sono perfettamente in grado di svolgere tali mansioni.
La discriminazione di genere sul lavoro – nell’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e nelle condizioni di lavoro (art. 27); nel divieto di discriminazione retributiva (art. 28); nel divieto di discriminazione nella prestazione lavorativa e nella progressione di carriera (art. 29); e anche nell’accesso alle prestazioni previdenziali (art. 30) – è soggetta alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma che va da € 5.000,00 a € 10.000,00.
Ma cosa si può fare nel momento in cui ci si trova a vivere delle discriminazioni, commesse in violazione dei divieti di legge?
L’art. 38 stabilisce che la persona lavoratrice, personalmente o per sua delega le OO.SS. o il Consigliere/ la Consigliera di parità, possa ricorrere al Tribunale, in funzione del giudice del lavoro, per tutelare i propri diritti ed ottenere un decreto immediatamente esecutivo che intimi, all’autore della discriminazione, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti da esso derivati. Inoltre, l’inottemperanza a tale decreto comporta la sanzione penale, nei confronti dell’autore della discriminazione, dell’ammenda fino a € 50.000,00 o dell’arresto fino a 6 mesi.
È importante, quindi, fintanto che ce ne sarà bisogno, che si parli di questo tipo di discriminazioni per poter decostruire gli stereotipi sociali che intaccano la nostra vita quotidiana. La legge c’è; in molte occasioni è assente; in molte andrebbe modificata; spesso non basta a tutelare chi vive determinate discriminazioni e violenze. Ma il cambiamento più importante è sempre quello culturale, perché da lì parte tutto il movimento di lotta e rivoluzione.
Dottoressa in Giurisprudenza, abilitata alla professione forense, con un Master in Studi e Politiche di Genere. È un'attivista digitale, crea contenuti legali per Chayn Italia, una piattaforma che si occupa di contrastare la violenza di genere utilizzando strumenti digitali, ed è membro della Redazione de Il ControVerso. Scrive su attualità, diritti umani, privacy e digitale, inclusione, gender gap, violenza di genere.
Attualmente lavora nel settore dell'editoria libraria.