Le persone che vivono violenza di genere – domestica, fisica o verbale, sessuale, psicologica, economica, digitale – si trovano spesso a essere sottoposte a una duplice vittimizzazione. In particolare, chi ha vissuto una violenza, oggetto di previsione penale, può subire la c.d. vittimizzazione secondaria o “post-crime victimization”, ossia una seconda violenza che rende nuovamente “vittima” la persona. Ciò può avvenire in vari contesti: da parte delle Istituzioni, nelle aule dei tribunali, nella rappresentazione della storia di violenza da parte dei media, sui social media o, più in generale, nei vari contesti sociali.
Quindi, si assiste alla vittimizzazione secondaria quando una persona, che ha già vissuto una violenza, viene costretta a subirne altre da chi, invece, dovrebbe proteggerla. Eppure, il divieto di vittimizzazione secondaria è richiamato in più occasioni dal diritto.
Innanzitutto, una precisa definizione di vittimizzazione secondaria è fornita dalla raccomandazione n. 8 del 2006 del Consiglio d’Europa, secondo cui “vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima”.
Come riporta la Relazione sulla vittimizzazione secondaria della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, “La Convenzione di Istanbul, all’articolo 18, stabilisce che gli Stati firmatari si impegnano ad “evitare la vittimizzazione secondaria”, che consiste nel far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, ed è spesso riconducibile alle procedure delle istituzioni susseguenti ad una denuncia, o comunque all’apertura di un procedimento giurisdizionale”.
Una previsione legislativa si riscontra anche nel nostro ordinamento interno, nell’ambito del procedimento penale, relativamente all’istituto della testimonianza. Infatti, il legislatore ha previsto, con L. n. 66/1996 e L. n. 296/1998, all’art. 472, comma 3-bis c.p.p. – nei procedimenti per i delitti di violenza sessuale, di prostituzione minorile e di tratta di persone – il divieto di porre domande aventi ad oggetto la vita privata o la sessualità della persona offesa del reato e l’ammissibilità delle stesse solo se funzionali a valutare la credibilità e l’attendibilità di una dichiarazione. Ma, purtroppo, nella prassi si riscontra molto spesso l’invasione nella sfera privata e sessuale delle persone che vivono tali situazioni e questo avviene col fine di minimizzare la violenza, colpevolizzare la persona che l’ha vissuta e deresponsabilizzare chi l’ha commessa.
È importante evidenziare che tale divieto è stato inserito nel nostro ordinamento in un’ottica di consapevolezza maturata grazie all’attività condotta, nei processi penali, dalle giuriste femministe. E sia la storia, sia le lotte quotidiane, ci raccontano molto a tal proposito.
Una prima denuncia risale all’arringa dell’Avvocata Tina Lagostena Bassi in “Processo per stupro”, documentario girato nel 1979, con cui per la prima volta nella storia si riprendeva la fase dibattimentale del processo penale. Nello specifico, l’Avvocata difendeva Fiorella – una donna che aveva denunciato una violenza sessuale di gruppo – non solo da coloro che l’avevano commessa, ma anche dagli stereotipi giudiziali che erano stati riprodotti nel processo. Infatti, la donna aveva subìto una seconda vittimizzazione nel momento in cui in aula le era stata attribuita la colpa di non essere una donna di “buoni costumi” e di aver in qualche modo avuto un atteggiamento sconveniente che aveva provocato tale violenza. Ecco qui che il diritto, nella fase dibattimentale di un processo penale, viene utilizzato per normalizzare una violenza sessuale di gruppo e colpevolizzare chi l’ha vissuta.
“Questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare una donna venire qui a dire “non è una puttana”. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, e senza bisogno di difensori. E io non sono il difensore della donna Fiorella, io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza, ed è una cosa diversa”
(Cit. Avv. Tina Lagostena Bassi).
Importante anche la condanna arrivata all’Italia, da parte della Corte EDU. Infatti, nonostante il succitato divieto e il recepimento della Direttiva 2012/29/UE – la quale istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato – lo Stato italiano è stato condannato dalla Corte Europea dei Diritti Umani, con la sentenza del 27 maggio 2021, ricorso n. 5671/16, causa J.L contro Italia, per violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU), che sancisce il principio secondo cui “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata”.
L’art. 18 della direttiva statuisce, difatti, che “gli Stati membri assicurano che sussistano misure per proteggere la vittima e i suoi familiari da vittimizzazione secondaria e ripetuta, intimidazioni e ritorsioni, compreso il rischio di danni emotivi o psicologici e per salvaguardare la dignità della vittima durante gli interrogatori o le testimonianze”.
Nel caso della condanna nei confronti dell’Italia, la ricorrente lamentava che le autorità non avessero garantito il rispetto e la protezione del suo diritto alla vita privata e della sua integrità personale nell’iter procedimentale e formativo del giudizio, avviato a seguito di una denuncia di violenza sessuale di gruppo che la stessa aveva presentato. La Corte EDU, adita dalla donna, ha ritenuto sussistente la vittimizzazione secondaria nei confronti delle donne e ha considerato
“essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie, di minimizzare la violenza di genere e di esporre le donne a una vittimizzazione secondaria utilizzando affermazioni colpevolizzanti e moralizzatrici atte a scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia”.
È allarmante l’ampia attuazione di stereotipi sessisti nei processi penali. Proprio di recente, il 18 luglio 2022, il comitato CEDAW ha deciso il caso F. c. Italia (148/2019), riconoscendo che gli stereotipi e i pregiudizi sessisti diffusi nei tribunali italiani violano il principio dell’uguaglianza delle donne davanti alla legge, e ciò è potuto succedere grazie all’Associazione Differenza Donna, che da sempre si impegna a far emergere, conoscere, combattere, prevenire e superare la violenza di genere.
Come si legge dal Comunicato, la violenza è stata commessa nei confronti “una donna che, già vittima di violenza domestica, ha subito uno stupro da un agente delle forze dell’ordine incaricato delle attività di indagini in corso sul maltrattamento subito dall’ex marito. L’agente delle forze dell’ordine era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione, poi assolto in secondo grado. La Corte di cassazione ha poi confermato l’assoluzione.
Lo Stato italiano nel procedimento ha difeso le politiche nazionali adottate negli ultimi anni in materia di prevenzione della violenza di genere nonché l’operato dell’autorità giudiziaria, ma il Comitato CEDAW ha ritenuto che il trattamento riservato alla donna prima dalla corte d’appello e poi dalla Corte di Cassazione non ha garantito “l’uguaglianza sostanziale della donna vittima di violenza di genere”. Si legge, ancora:
“I pregiudizi e gli stereotipi sessisti hanno lasciato spazio a interpretazioni contrastanti e dannose, basate su norme e preconcetti culturali che hanno negato alla donna un accesso paritario alla giustizia, non hanno assicurato l’adeguata protezione, ma l’hanno ripetutamente sottoposta a discriminazioni e ri-traumatizzazioni“.
Inoltre, “Il Comitato sottolinea che le sentenze di assoluzione nel caso di specie si sono basate su “percezioni distorte e su miti e convinzioni preconcette, piuttosto che su fatti rilevanti, che hanno indotto la Corte Regionale e la Corte Suprema di Cassazione a interpretare o ad applicare in modo errato le leggi, minando così l’imparzialità e l’integrità del sistema giudiziario e producendo un errore giudiziario e la rivittimizzazione della donna”.
Assistiamo a episodi di vittimizzazione secondaria ogni volta che una persona che ha vissuto violenza non viene creduta, o viene colpevolizzata e diventa imputata. Nei casi di violenza di genere, spesso sentiamo frasi – “se l’è cercata”, “era ubriaca”, “era vestita in modo provocatorio”, “aveva una vita sessuale attiva”, “ha scelto di inviare immagini intime” – che spostano l’attenzione da chi commette il reato a chi lo vive. In tal modo si deresponsabilizza chi attua una violenza di genere e si colpevolizza la persona che la vive.
Il c.d. victim blaming, ossia lo spostamento della colpa e della sanzione morale e sociale nei confronti della persona offesa, può produrre alcuni effetti su chi si trova a vivere questa situazione, e tali effetti configurano la vittimizzazione secondaria, che è un problema di matrice culturale in una società che attua la normalizzazione e l’alimentazione della violenza.
Ma non solo. Una delle conseguenze che spesso si verifica, sul piano legale, è quella relativa all’inibizione a denunciare tali violenze per paura della stigmatizzazione. Il fenomeno, c.d. under reporting, rappresenta la tendenza delle donne a non denunciare per paura di non essere protette e di essere colpevolizzate, proprio perché la conseguenza della denuncia, molto spesso, è la colpevolizzazione della donna con una totale deresponsabilizzazione di chi commette la violenza.
Secondo la Corte di Cassazione, la vittimizzazione secondaria è una conseguenza spesso sottovalutata proprio nei casi in cui le donne sono vittima di reati di genere, e l’effetto principale è quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima stessa (Cass., Sent. n. 35110/2021).
Bisognerebbe, quindi, decostruire gli stereotipi che la società ha messo in piedi. Sarebbe il caso di concentrarci sulle ragioni di matrice patriarcale che spingono un uomo a commettere la violenza di genere. Sarebbe il caso di imparare a spostare il focus, dalla “vittima” al colpevole. Ma sarebbe anche il caso di guardarci meglio dentro, di riconoscere atteggiamenti interiorizzati e segnalare, a noi e a chi ci sta intorno, questi comportamenti che non fanno altro che alimentare la violenza di genere. Sarebbe il caso di proteggere, assistere e sostenere chi vive una violenza di genere, anziché colpevolizzarla.
Dottoressa in Giurisprudenza, abilitata alla professione forense, con un Master in Studi e Politiche di Genere. È un'attivista digitale, crea contenuti legali per Chayn Italia, una piattaforma che si occupa di contrastare la violenza di genere utilizzando strumenti digitali, ed è membro della Redazione de Il ControVerso. Scrive su attualità, diritti umani, privacy e digitale, inclusione, gender gap, violenza di genere.
Attualmente lavora nel settore dell'editoria libraria.
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