Secondo il dizionario online Treccani, il termine “paternalismo” [dall’ingl. paternalism, der. di paternal «paterno»] indica “l’impostazione data all’attività di governo, soprattutto a partire dal sec. 18°, dai sovrani degli stati europei, che si assunsero come proprio l’assolvimento complessivo dei compiti amministrativi e politici nei confronti di quanti vivevano nell’ambito del loro territorio, e in partic. l’atteggiamento per cui i governanti attuano una politica che, pur tendendo con sollecitudine paterna al progresso e al benessere dei governati, non li considera però capaci di perseguire tali fini in modo autonomo”.
È chiaro il rinvio al “paterno”, nel diritto. Da sempre, nella storia, nella cultura, nella legge, il padre di famiglia è stato il potere autorevole. Ciò che richiede una decisione è paterno. Ciò che detta legge è paterno. Ciò che stabilisce la punizione, in caso di inosservanza di una regola, è paterno. E, conseguentemente, ciò che è paterno è sempre stato Uomo.
Il paternalismo legislativo agisce ostacolando il diritto di autodeterminazione e l’istituzione di forme di tutela volte a contrastare la violenza; agisce interferendo nella scrittura della legge. Infatti, la legge viene scritta dall’Uomo per l’Uomo, che considera la donna incapace di autodeterminarsi – politicamente, sessualmente, economicamente, lavorativamente – e la relega, dunque, alle sue funzioni di cura.
Si pensi all’art 37 della Costituzione, il quale, ponendo il rilievo il mero ruolo di cura della donna, stabilisce che “le condizioni di lavoro (della donna) devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Ancora, nel Codice Civile, il ruolo dell’Uomo padre e padrone non è mai stato messo in discussione. Ciò si evince, anche solo banalmente, dalla locuzione che all’art. 1176 c.c. richiede, nell’adempimento delle obbligazioni, la diligenza del “buon padre di famiglia”. Altro aspetto a titolo di esempio è quello riguardante l’istituto della proprietà, dalla quale erano escluse le donne, considerate incapaci di gestire il patrimonio economico. Nel diritto romano, da sempre, il pater familias era l’esclusivo e assoluto titolare del dominium sulle cose, ma anche sulla moglie.
Nell’ambito del diritto penale, è fondamentale inquadrare il contesto storico di riferimento. Il nostro Codice penale è sopravvissuto al mutamento dallo Stato fascista alla forma repubblicana, mentre nel dopoguerra, quasi tutti i codici penali europei sono stati modificati o sostituiti. Nato in un regime incentrato sull’autorità statale, non è stato poi adattato all’ordinamento costituzionale che tutela e garantisce, teoricamente, i diritti e le libertà della persona. Sono tanti, purtroppo, gli aspetti in cui si nota tale autoritarismo il quale, nelle variegate forme, opprime il diritto di autodeterminazione che, però, non è mai quello maschile. Questa sopraffazione si configura sempre a discapito di chi sta al margine.
Sia in un’ottica di imputabilità, sia in un’ottica legata alla tutela giuridica, le donne e le altre soggettività non hanno mai avuto molto spazio, essendo state oggetto di inferiorizzazione e di infantilizzazione da parte del “legislatore paterno”.
Un esempio è la questione, sorta tra l’Ottocento e il Novecento, relativa all’imputabilità della donna, messa in discussione dalla Scuola positiva e nel tempo attenuata, diminuita, o addirittura esclusa, sulla base dell’antico principio della infirmitas sexus, ossia l’impedimento dovuto al sesso. Quest’ultimo concetto ha riguardato le teorie che sostenevano l’inferiorità biologica e fisiologica della donna e che, per tale debolezza, mettevano in discussione la sua coscienza di offendere, in quanto influenzabile dalla incapacità di intendere il valore dei beni tutelati.
Mentre il Codice Zanardelli del 1889 non contemplava la differenza di sesso ai fini dell’imputabilità, in dottrina si sviluppavano sia orientamenti che ritenevano ammissibile la diminuzione dell’imputabilità delle donne, sia teorie che lasciavano al libero arbitrio dell’organo giudicante la valutazione sull’imputabilità. Ancora, Cesare Lombroso, criminologo esponente del positivismo, suggeriva che fosse più adeguato un sistema punitivo differenziato, che si basasse su un sistema sanzionatorio specifico per le donne, ispirato al modello della punizione privata delegata storicamente anche dopo un processo pubblico alla famiglia di appartenenza. Infatti, quando il potere di correzione da parte della famiglia, nei confronti delle donne, non era sufficiente, esso veniva delegato a strutture di internamento, su istanza di mariti, fratelli, sindaci.
La questione dell’imputabilità della donna rappresentava uno degli strumenti di regolamentazione di un assetto culturale e sociale che si voleva di impronta patriarcale e risulta una delle forme massime di manifestazione del paternalismo legislativo, nella sua accezione più incisiva, in quanto si considerava la donna incapace di autodeterminarsi a commettere un reato.
Tale paternalismo si riscontra anche nel fatto che fino al Novecento i reati di cui rispondevano le donne non erano quelli relativi alla sfera economica e politica collettiva, bensì quelli rappresentanti una violazione delle norme di “codici patriarcali”, riguardanti la sfera sessuale, la cura e la devozione all’uomo nel matrimonio. Si ricordano: la prostituzione, l’oltraggio al pudore, l’aborto, l’infanticidio, e, infine, l’adulterio.
Un altro esempio di paternalismo legislativo può essere quello riguardante l’istituto della pena. Da sempre il legislatore ha avuto più a cuore la tutela di beni giuridici collettivi – che rientrano in un’ottica patriarcale e capitalista – piuttosto che la tutela della libertà di autodeterminazione e della incolumità individuale. Ne è un esempio il fatto che fino al 1996 i reati sessuali erano inseriti tra i delitti contro la moralità pubblica e il buon costume. Il bene tutelato, dunque, era quello collettivo della società ed era completamente annullata l’autodeterminazione della persona che si ritrovava a vivere una violenza sessuale.
Purtroppo, non serve andare indietro nel tempo per vedere come il paternalismo legislativo agisca a discapito di determinate categorie. Ne è un esempio la legge sull’aborto in Italia, non incentrata sull’autodeterminazione della donna e non sempre garantita, visto l’alto tasso di obiezione di coscienza nelle strutture pubbliche; o il divieto di aborto in altre nazioni. Ancora, un altro esempio è quello dell’affossamento del DDL Zan, che avrebbe introdotto nel nostro ordinamento una legge contro i crimini di odio e discriminazione, omolesbobitransfobici e contro le persone con disabilità.
Tali esempi di paternalismo legislativo fanno comprendere come il diritto, che dovrebbe essere utilizzato alla stregua di una garanzia e di una cura, venga spesso manipolato e utilizzato come un veleno per ostacolare od opprimere il diritto di autodeterminazione e per impedire una tutela nei confronti di chi non ha il potere del privilegio. Secondo Tamar Pitch, giurista e accademica, il diritto presenta l’ambiguità di un pharmakon: risulta al contempo veleno e cura, la cui efficacia non è negata, ma neppure garantita.
Dottoressa in Giurisprudenza, abilitata alla professione forense, con un Master in Studi e Politiche di Genere. È un'attivista digitale, crea contenuti legali per Chayn Italia, una piattaforma che si occupa di contrastare la violenza di genere utilizzando strumenti digitali, ed è membro della Redazione de Il ControVerso. Scrive su attualità, diritti umani, privacy e digitale, inclusione, gender gap, violenza di genere.
Attualmente lavora nel settore dell'editoria libraria.