21 anni dopo il massacro di Genova c’è un’Italia che non dimentica e un’Italia che non impara

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Se guardiamo ai fatti di Genova c’è un prima e c’è un dopo.

C’è un prima, alla fine degli anni ’90, pieno di speranza, aspettative, desideri, prospettive. E poi c’è un dopo, che inizia il 21 luglio 2001, in cui tutto questo si frantuma e cede il posto a una rabbia surreale: perché in quei tre giorni di luglio, a Genova, ogni diritto è morto.

Oggi, 21 luglio 2022, sono passati esattamente 21 anni da quel massacro di Genova in cui le forze dell’ordine, rimaste impunite, hanno assediato e torturato un corteo pacifico venuto in protesta da tutto il mondo. A 21 anni dai fatti, quel massacro deve ancora essere raccontato, come monito, in un paese che non ha ancora imparato, in un mondo, che ancora non ascolta.

Il 20 luglio 2001 si tenne a Genova il vertice del G8, imprese e multinazionali si riunirono insieme ai grandi 8 paesi della terra: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti. Una grande fetta del mondo, però, non era d’accordo con quello che questo incontro rappresentava. Gli oppositori sono stati chiamati No-Global. L’etichetta No-Global, tuttavia, non l’hanno scelta i partecipanti al movimento, ma gli è stata affibbiata dai media mainstream per delegittimare le loro proteste. Se ascoltate le voci di chi in quegli anni veniva definito No-Global, infatti, ascolterete che non si tratta affatto di un movimento contrario alla globalizzazione, ma, piuttosto, contrario a quel (e questo) tipo di globalizzazione. Contrario, in particolare, a quel modello che possiamo definire “neo-liberista”, quel sistema, cioè, in cui i capitali sono al primo posto e non hanno alcun controllo. Si tratta proprio di quel sistema in cui le imprese possono liberamente decidere di investire dove troveranno le condizioni migliori: meno diritti, meno tutele, meno regole ambientali. Gli Stati, dal canto loro, grandi o piccoli che siano, vogliono accrescere il capitale nel proprio territorio e così rinunciano a garantire diritti e tutele per attirare investimenti di grandi multinazionali. Sono quindi i capitali finanziari a dettare le scelte politiche. E la politica, che dovrebbe essere espressione della democrazia, diventa così espressione degli interessi delle aziende.

Questo pensiero d’opposizione gira con forza in tutto il mondo: miglia di organizzazioni e milioni di persone si oppongono al modello neoliberista e non riconoscono l’autorità di istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale o l’Organizzazione Mondiale del Commercio, che nonostante non siano eletti democraticamente, definiscono le strade che il mondo percorre.

Il vertice del G8 rappresenta l’ennesima occasione di discussione unilaterale: di nuovo, solo Stati e imprese saranno chiamati a decidere per il futuro di ogni popolazione. L’opposizione, da ogni parte del mondo, decide di riunirsi. Si crea così il Genoa Social Forum per proporre uno sviluppo alternativo. Opinione pubblica, ambientalisti, attivisti, politici, premi Nobel, femministe, insieme propongono un nuovo modello di sviluppo: sviluppo senza sfruttamento, sviluppo che non preveda l’imposizione di un’unica cultura su tutte le altre, di un unico genere, di un unico colore.

Mentre, però, il movimento contro l’oppressione si faceva spazio in ogni parte del mondo, e a Genova sarebbero arrivate migliaia di persone per protestare da ogni continente, l’Europa si chiudeva sempre di più: la libera circolazione in Europa garantiva ai cittadini di potersi spostare liberamente ma allontanava l’Unione dal resto del mondo, professando una globalità solo finanziaria. Le barriere esterne dell’Europa si alzano sempre di più e se dentro la circolazione è libera, da fuori non si entra: nasce la figura del “clandestino”. Arrivano i primi soprusi. Il “clandestino”, che fino al giorno prima era un normale migrante, viene ora demonizzato dalla politica e dai media, incarcerato, senza che abbia commesso alcun crimine.

È proprio la migrazione uno dei temi che i manifestanti vorranno affrontare durante le proteste al G8. Le persone ambiscono ad un modello in cui viga la parità di ogni essere umano. I migranti invece, è sempre più evidente, sono vittime di una globalizzazione che li vuole solo come schiavi da sfruttare e poi gettare via.

Il 19 luglio 2001, è il primo giorno di manifestazioni, e le rivendicazioni iniziali ambiscono proprio alla tutela della dignità di ogni persona migrante e dei flussi migratori. Sfilano oltre 60 mila persone. Aprono il corteo i parenti delle vittime di quei migranti morti in mare, per colpa del muro di cinta che l’Europa si è costruita attorno. Il clima del corteo sembra festoso. C’è tanta speranza e ci sono proposte concrete. Il vertice del G8 inizierà il giorno successivo.

Ma come si è trasformato un corteo di musica e speranza nelle giornate più violente che l’Italia ricordi?

Il 20 luglio, il primo girono in cui la situazione degenera, la manifestazione è organizzata così: ci sono diverse piazze e ogni piazza ha una tematica centrale da portare avanti. Alcune piazze sono vicine alla zona rossa, cioè quell’ampia zona intorno a palazzo Ducale, dove il G8 era in corso. Uno dei cortei, il cosiddetto “corteo dei disobbedienti” è l’unico che tenterà di andare pochi metri oltre il limite dalla zona rossa per simboleggiare il passo in avanti di un mondo escluso dal potere degli 8 grandi. Nulla di pericoloso. Non ci sono armi di alcun tipo, solo protezioni blande per proteggersi da eventuali aggressioni della polizia.

La sera precedente, però, c’erano stati alcuni segnali definiti “strani” dai presenti: decine di container in giro per la città, poliziotti che facevano il saluto fascista vicino alle camionette. Ma nessuno immaginava quello che sarebbe successo. Tutti erano d’accordo nell’isolare eventuali violenze e nel tutelare tutte le aree pacifiche. Le cose però, non andranno così.

È il primo mattino del 20 luglio e si registrano alcune azioni violente. Inizialmente sono solamente i cosiddetti Black Block ad agire, assieme ad alcuni gruppi anarchici. Quasi tutti, incappucciati di nero. Alcuni cassonetti prendono fuoco. Una macchina viene incendiata. Sono poche centinaia di persone ma subito i manifestanti chiedono aiuto alle forze dell’ordine: l’intenzione della folla in protesta è di mantenere tutto pacifico. La situazione però degenera, alcuni manifestanti vengono feriti, altri intrappolati. Nonostante diverse richieste di aiuto, però, la polizia però non interviene. Le violenze contro i manifestanti si intensificano, vengono lanciate anche bottiglie incendiarie. I Black Block, ancora incappucciati, aggrediscono la folla con intensità sempre maggiore e, man mano, si avvicinano alle camionette della polizia. Le forze dell’ordine sembrano pronte ad intervenire. La folla aspetta. La polizia parte, ma non carica quelli vestiti di nero, i Black Block, si lancia, invece, contro il corteo pacifico e del tutto autorizzato.

Passano pochi minuti e anche in altre piazze le forze dell’ordine iniziano ad attaccare i manifestanti pacifici. Durante le inchieste successive si scoprirà, poi, che alcuni cortei sono stati attaccati violentemente dai carabinieri che hanno agito incontrollati pur non avendo alcun ordine di attaccare né dalla polizia né dalla questura.

Le cariche che colpiscono indistintamente ogni area della folla non sono cariche di alleggerimento, ma una vera e propria furia violenta che si scaglia sui manifestanti indistintamente, a mani nude, con calci e con armi. Con sputi.

Molti manifestanti in fuga vengono presi dalla polizia proprio mentre cercano di mettersi in salvo dalla violenza incontrollata. Alcuni vengono sequestrati, portati su dei furgoni e poi picchiati brutalmente dalle forze dell’ordine coperte in volto. Poi, arrestati. Alcuni vengono portati alla caserma di Bolzaneto e torturati, anche se il reato di tortura, in quegli anni, per la legge italiana ancora non esiste.

Le stesse violenze avvengono su avvocati e giornalisti che stavano riprendendo tutte le violenze. Dai balconi i genovesi urlavano ai poliziotti di fermarsi, ma le cariche proseguono. Alcuni manifestanti provano a difendersi perché non possono fuggire, bloccati dalla polizia, e bloccati da quei container distribuiti dal giorno precedente all’uscita delle strade della città. Le piazze di Genova diventano così un vero e proprio campo di battaglia.

A piazza Alimonda, un ragazzo di 23 anni, di nome Carlo Giuliani, prova a salvare la folla da un estintore troppo vicino ad una pistola carica. L’esplosione avrebbe causato un disastro. Si avvicina così all’estintore per prenderlo facendo qualche passo disarmato verso le forze dell’ordine. Un poliziotto gli si avvicina, gli punta la pistola in faccia, e gli spara. La camionetta dei carabinieri passerà sul cadavere di Carlo Giuliani per ben due volte. I testimoni raccontano che le forze dell’ordine continueranno a colpirlo con un sasso. Nella stessa giornata, vengono esplosi altri 17 colpi di pistola. Il 20 luglio finisce con le strade di Genova piene di sangue.

Il giorno dopo, il 21 luglio, era previsto per il nuovo corteo l’arrivo di oltre 300 mila persone da ogni parte del mondo. “Perché non annullate la manifestazione, c’è stato un morto” si chiedeva ai manifestanti. “Perché c’è stato un omicidio”, era la risposta che risuona. La manifestazione il 21 luglio si fa. Ci sono davvero 300 mila persone. Le violenze della polizia, però, si ripetono. Anche chi ha le mani alzate e grida per la non violenza, viene preso a manganellate. Altri invece, reagiscono. Non si riesce a scappare perché la folla è troppo densa. Nel frattempo, i Black Block continuano a bruciare tutto ciò che incontrano e di nuovo, le forze dell’ordine, non intervengono. I manifestanti raccontano la situazione come surreale. Si vedono solo fuoco e sangue, si respira solo fumo nero. Bruciano gli occhi e la gola. I feriti erano ovunque. Scappare è difficilissimo.

La notte tra il 21 e il 22 luglio i manifestanti, soprattutto quelli stranieri che non avevano un luogo in cui dormire, si raccolgono nelle scuole Diaz, Pertini e in alcuni edifici che da giorni erano stati concessi dal Comune come luogo di raduno sicuro per passare la notte. Tutti si sentivano al sicuro li. Ma quella notte oltre 500 rappresentanti delle forze dell’ordine fecero irruzione in questi edifici e picchiarono violentemente tutti i presenti. Le prove delle violenze avvenute durante il giorno furono distrutte. Ufficialmente, quella, era una perquisizione. La polizia prenderà dall’ingresso della Diaz due Molotov e racconterà di come i manifestanti erano in realtà un gruppo di violenti pronti ad usare le armi per colpire le forze dell’ordine. Le Molotov però, come le indagini successive confermeranno, erano state posizionate all’ingresso della Diaz dalla stessa polizia che, con l’inganno e senza alcuna autorizzazione, aveva invaso l’edificio in gestione ai manifestanti macchiandolo di sangue innocente. “Don’t clean up the blood (non pulite il sangue)” hanno scritto le vittime su dei fogli appesi alle pareti della scuola.

“Non si possono dimenticare le terribili ferite inferte a persone inermi, la premeditazione, i volti coperti, la falsificazione del verbale di arresto dei novantatré no-global, le bugie sulla loro presunta resistenza. Né si può dimenticare la sistematica e indiscriminata aggressione e l’attribuzione a tutti gli arrestati delle due molotov portate nella Diaz dagli stessi poliziotti”, racconterà il Procuratore Generale di Genova Pio Machiavello.

Negli anni successivi ai fatti di Genova, lo Stato Italiano ha subito diverse condanne per gli abusi commessi dalle forze dell’ordine; nei confronti di funzionari pubblici sono stati aperti procedimenti penali. Molti reati furono accertati, ma gli agenti responsabili di tutte quelle violenze non sono stati individuati. Negli anni successivi, nonostante diversi comitati abbiano tentato di tenere alta l’attenzione sulle ingiustizie che continuavano a perpetuarsi nelle aule di tribunale, l’attenzione mediatica e collettiva scende. Molti manifestanti furono arrestati e poi rilasciati ma altri hanno subito processi penali della durata di anni, perdendo tutto ciò che avevano.

Nonostante la Procura di Genova abbia aperto 11 filoni di indagine sui fatti del G8, i processi negli anni successivi sono stati solo 3: quello per le violenze nella scuola Diaz, quello per le violenze nella caserma di Bolzaneto e quello per l’imputazione dei manifestanti. Nessun processo è stato aperto per la morte di Carlo Giuliani. L’omicidio, è stato archiviato.

Nel corso degli anni i processi riconoscono la veridicità dei fatti, le violenze avvenute. Ma le condanne saranno a carico dello Stato italiano (e quindi, in effetti, dei contribuenti) perché le forze dell’ordine che hanno agito violenza, senza numero identificativo sulle divise, non potranno mai essere riconosciute e quindi, perseguite. Nessuno di loro andrà in carcere. Di contro, le loro carriere avanzano. D’altro canto alcuni manifestanti, imputati per “devastazione e saccheggio”, danni ad oggetti, quindi, sono condannati a decenni di galera.

A 21 anni dai fatti di Genova non si può ancora dire che lo Stato Italiano abbia adottato provvedimenti per prevenire abusi di potere da parte delle forze dell’ordine. Nonostante numerosi e incalzanti inviti da parte della comunità internazionale ad inserire i numeri identificativi sulle divise degli agenti, ancora nessun passo è stato fatto. Parimenti le violenze delle forze dell’ordine non possono certo dirsi ferme ai fatti di Genova. Solo nel 2022 sono state diverse le manifestazioni represse nel sangue, anche ai danni di studenti e minorenni.

Quelle rivendicazioni pagate a caro prezzo nel 2001 sono state ignorate dal mondo dei capitali, dalla politica e del potere. La crisi climatica è ormai irreparabile, le disuguaglianze sociali sono ogni anno più incolmabili e ogni morto in mare sempre più indifferente agli occhi del mondo. Nel frattempo però queste stesse istanze vengono usate come carte elettorali, bonus propagandistici, campagne pubblicitarie, che mentre alzano le mani in nome della parità non fanno altro che riprodurre dietro la schiena quel meccanismo contro cui 300 mila persone si scagliavano quel famoso 21 luglio 2001.

Genova chiusa da sbarre, Genova soffre come in prigione
Genova marcata a vista attende un soffio di liberazione
Dentro gli uffici uomini freddi discutono la strategia
E uomini caldi esplodono un colpo secco, morte e follia

Francesco Guccini, Piazza Aliomonda. Ritratti, 2004.
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