Giovedì 7 luglio la Corte d’Appello di Torino ha assolto un 24enne condannato per violenza sessuale in primo grado di giudizio. Il ragazzo, che era stato ritenuto colpevole dal GUP e condannato a oltre 2 anni di carcere, è stato sollevato dalle accuse dalla Corte d’Appello che ha ritenuto che il comportamento del ragazzo non fosse considerabile come una violenza sessuale, in quanto la vittima “fece insorgere l’idea che fosse l’occasione propizia”.
La dinamica risale al 2019 quando i due, al momento dei fatti amici da circa 5 anni, si incontrarono in un bar per chiarire i possibili sviluppi relazionali di un bacio avvenuto qualche tempo prima. La ragazza, in particolare, puntava a chiarire durante quell’incontro che non intendeva iniziare un rapporto sentimentale. La violenza riconosciuta in primo grado avviene nel momento in cui la ragazza si reca ubriaca al bagno di un cortile interno, il ragazzo sarebbe in un primo momento rimasto fuori a tenere la borsa della ragazza e sarebbe poi entrato nel bagno per stuprarla approfittando della porta mal chiusa.
Nonostante le risultanze processuali di primo grado riportino il dissenso esplicito di lei, la Corte d’Appello dichiara che “non si può affatto escludere che al ragazzo, la giovane abbia dato delle speranze, facendosi accompagnare al bagno, facendosi sporgere i fazzoletti, tenendo la porta socchiusa, aperture lette certamente dall’imputato come un invito a osare. Invito che l’uomo non si fece ripetere, ma che poi la ragazza non seppe gestire, poiché un po’ sbronza e assalita dal panico”. La Corte continua sostenendo che “al momento dei fatti la ragazza era alterata per un uso smodato di alcol” ed “è quindi altamente probabile che non fosse pienamente in sé quando richiese di accedere al bagno, provocò l’avvicinamento del giovane che invero la stava attendendo dietro la porta, custodendo la sua borsetta: non solo, ma si trattenne in bagno, senza chiudere la porta, così da far insorgere nell’uomo l’idea che la giovane gli stesse offrendo. Occasione che non si fece sfuggire”.
Come è possibile che la Corte d’Appello di Torino ribalti una condanna per stupro avvenuta in primo grado sentenziando che la lettura della situazione “come un invito a osare”, “invito che l’uomo si fece ripetere”, equivalga ad un invito e quindi a un consenso mai pronunciato dalla donna? E poi, lo stesso stato alterato della donna, che la Corte ha più volte rimarcato nella sentenza, non dovrebbe forse costituire un’aggravante d’abuso, in quanto ulteriore elemento a testimonianza della difficoltà della donna nel capire cosa stesse accadendo, piuttosto che un elemento di sgravo di responsabilità per l’abusatore?
La stessa Corte di Cassazione, d’altronde, afferma il principio opposto: è il rifiuto della vittima che va presunto e non il suo consenso. In assenza di chiari elementi che dimostrino la consensualità dell’atto sessuale, quindi, si assume che questo non sia consensuale. La Corte d’Appello di Torino ha invece presunto il consenso della donna – già cosa di per sé in opposizione ai principi della Corte Costituzionale – sostenendo poi che la porta mal chiusa del bagno e lo stato confusionale della donna fossero gli elementi interpretabili come il possibile consenso.
All’uscita dal bagno, la successione di eventi confermata vede la ragazza in preda ad un attacco di panico ma “l’imputato era parso gentile ai presenti subito dopo i fatti, quando il pianto della ragazza aveva attirato altre persone, mostrando un atteggiamento ben lontano da quello dello stupratore”, dichiara ancora la Corte d’Appello. Supposizioni che i dati ci dicono essere ben lontane dalla realtà, ma che contribuiranno a rinforzare l’immagine stereotipata di stupratori unicamente come sconosciuti che trascinano donne nei vicoli, mentre i dati ISTAT sottolineano come il 13,6% delle donne che ha subito abusi sessuali, li abbia subiti da parte di un partner. Si tratta, nello specifico, di 2 milioni e 800 mila donne.
«L’unico dato indicativo del presunto abuso», conclude la Corte d’Appello, «potrebbe essere considerato la cerniera rotta, ma l’uomo non ha negato di aver aperto i pantaloni della giovane, ragione per cui nulla può escludere che sull’esaltazione del momento, la cerniera, di modesta qualità, si sia deteriorata sotto forzatura».
Volendo guardare alla sentenza nel suo complesso, vediamo quindi da un lato una donna (confermata vittima di violenza in primo grado) che ha subito un processo al suo comportamento: considerato dalla Corte non compatibile con quello dell’immagine ideale della vittima di violenza sessuale in quanto la ragazza aveva bevuto alcol, aveva lasciato la porta del bagno socchiusa e aveva in più una zip di modesta qualità (elemento che a quanto pare ha supportato l’ipotesi dell’ “esaltazione del momento”); dall’altro lato, vediamo il racconto di un uomo “indotto ad osare” da una “occasione propizia”, il cui comportamento (la “gentilezza” uscito dal bagno e l’ammissione di aver abbassato la zip della ragazza) è stato definito come sinonimo di innocenza.
Si conclude così, con una sentenza che giustifica il ragazzo sulla base dei comportamenti della vittima, un processo che si direbbe essere stato più ai comportamenti e ai gesti della donna che a quelli dell’uomo, già condannato in primo grado. Una sentenza che rimarca una mentalità di stampo patriarcale che guarda alle vittime di violenza come a coloro che “se la sono cercata”, tutelando così in modo contorto l’atto di stupro attraverso l’imputazione della colpa originaria alla vittima, che “avrebbe potuto evitarlo”, al contrario dell’uomo, guardato come ad un essere non dotato di uno sviluppo cognitivo tale da permettergli di non stuprare una donna in qualsivoglia condizione. Una sentenza che equipara una porta socchiusa ad un invito a consumare rapporti sessuali, nonostante la denuncia della donna e nonostante le sue chiare testimonianze sul suo dissenso di fronte i giudici.
Mentre ci chiediamo quindi che effetto avrà l’ennesima sentenza dal sapore patriarcale sulle 2 donne su 10 che scelgono di denunciare gli abusi subiti e su quelle 8 su 10 che scelgono di non denunciare, aspettiamo gli esiti del ricorso al terzo grado di giudizio. La Procura ha infatti sottolineato come la Corte d’Appello di Torino abbia dimostrato di fatto «di non applicare i principi giurisprudenziali in tema di consenso all’atto sessuale».