È il 1967, Gigliola Pierobon, originaria di un paesino nella provincia di Padova ha 17 anni ed è incinta. Abortire è un reato. Il codice Rocco, cioè il codice penale fascista redatto nel 1930, in vigore ancora oggi, definisce l’aborto un atto «contro l’integrità e la sanità della stirpe». Abortire significava, all’epoca, rischiare dai 2 ai 5 anni di carcere, con uno sconto sulla pena solo nel caso in cui l’interruzione della gravidanza fosse stata scelta «per salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto».
In Italia, quindi, l’unica strada per poter abortire è rappresentata dalle pratiche clandestine, molto pericolose e molto costose.
Così Gigliola Pierobon, 17 anni e 40mila lire in tasca date da un amico, si ritrovò stasa sul tavolo di una di quelle donne che all’epoca venivano chiamate “mammane”, per sottoporsi ad un aborto clandestino, con una sonda di ferro a scavarle dentro senza farmaci né sedativi.
Gigliola Pierobon sopravvive all’intervento rudimentale, ma nel 1972 viene rinviata a giudizio dal tribunale di Padova, imputata di aver interrotto illecitamente la sua gravidanza diversi anni prima.
Entrata in contatto con il movimento Lotta Femminista negli anni successivi all’aborto, Gigliola Pierobon matura una consapevolezza politica tale da provare a rendere, assieme alla sua difesa composta da Bianca Guidetti Serra e Vincenzo Todesco, il suo processo un evento non solo giudiziario, ma anche politico e sociale, che mira a condannare le retrograde leggi sull’aborto italiane. Nonostante lo sforzo della difesa di uscire fuori dai confini del processo, riportando studi, testimonianze e statistiche, i giudici si rifiutano di lasciare che il processo divenga punto di partenza per l’innovazione della legge sull’aborto.
Nulla poté arginare, tuttavia, la mobilitazione sociale che si scatenò a partire dal processo di Gigliola Pierobon. Manifestazioni, cortei e sit-in iniziarono a popolare le strade con migliaia di donne che rumorosamente rivendicavano il diritto all’autodeterminazione e all’aborto libero e sicuro. Decine furono i casi di auto-denunce a dimostrazione dell’impossibilità di impedire alle donne di interrompere gravidanze indesiderate.
Parallelamente Gigliola Pierobon, nell’aula del tribunale, rivendicava il suo diritto all’aborto dichiarando pubblicamente: «La mia storia è quella di tante altre e il mio “reato” è un fatto commesso ogni anno in Italia da più di tre milioni di donne».
Il 7 giugno 1973 Gigliola Pierobon fu dichiarata colpevole e condannata ad un anno di carcere. Ottenne tuttavia il perdono giudiziale perché negli anni successivi si era spostata e aveva avuto una figlia, garantendo così “l’integrità e la sanità della stirpe”. A seguito della sentenza Gigliola Pierobon dichiarò: «io il perdono non l’avevo chiesto: non mi sento colpevole. Quindi non sono pentita. A stabilire il mio pentimento è stata la legge».
È quindi a partire dal caso Pierobon che in Italia si sollevò il velo sui migliaia di aborti clandestini praticati ogni anno e prese il via un’importante mobilitazione sociale sulla rivendicazione del diritto d’aborto che porterà poi alla legge 194 del 1978.