«Le donne si presentavano dopo la mezzanotte, uscivano di casa con il buio, quando nessuno poteva vederle: arrivavano in ospedale con ferite gravissime, lacerazioni, emorragie, infezioni. Accadeva ogni sera, ormai eravamo preparati: quelle donne, a volte quelle ragazzine, erano le reduci di aborti clandestini avvenuti chissà dove e con chissà quali mezzi, facevamo il possibile per aiutarle, alcune si salvavano ma altre morivano, e molte restavano lesionate per sempre.»
A parlare è un medico, uno di quelli che in quei lontani – ma non troppo – anni ’60 aveva accettato di eseguire una delle pratiche più ‘vergognose’ e ‘ignobili’ che esistano al mondo: concedere ad una donna l’utopica facoltà di scelta circa il proprio corpo, permetterle di decidere autonomamente, senza alcuna costrizione o delirante influenza, se diventare madre o rinunciare alla maternità medesima, macchiandosi di uno dei più scabrosi peccati.
Eppure, all’epoca il numero degli aborti attuati in un anno oscillava tra i 17.000 fino a sfiorare i 600.000: le modalità di esecuzione prevedevano l’uso di ferri da cucina, incutendo spasmodica sofferenza in chi si sottoponeva a tale pratica; la maggior delle interruzioni di gravidanza veniva effettuata dalle cosiddette “mammane” o anche “praticone”, il cui interesse ruotava solo intorno al vil denaro, non curandosi per niente della salute della donna.
E la stampa taceva: del resto, si correva il rischio di deturpare il proprio nome, di infangare il proprio borghesissimo e ultracattolico onore, se solo si provava a narrare l’orrore di ciò che accadeva su quei vecchi tavoli da cucina, scenari idilliaci in cui poter ambientare film horror degni di Oscar. No. Affinché la stampa si degnasse di dar voce a quegli eventi, doveva scapparci il morto, perché in fondo la morte era la giusta punizione per chi aveva clamorosamente deciso di fare a meno della maternità – e magari nemmeno per un irrisorio anelito alla libertà, ma semplicemente perché le bocche da sfamare divenivano sempre di più e i soldi non bastavano mai.
Dietro questo inerte silenzio di chi sa, ma preferisce trincerarsi dietro le sbarre dell’indifferenza, vi era anche la magistratura.
Era il 1973, quando scoppiò il caso Pierobon: in un piccolo paesino della provincia di Padova, Gigliola Pierobon, allora diciassettenne, decide di interrompere volontariamente la propria gravidanza e quando, nelle gelide aule di giustizia, a mo’ di inquisizione, le viene chiesto se abbia o meno fatto ricorso alla pratica abortiva, ha il coraggio di rispondere affermativamente. I giudici non le credono, hanno bisogno di prove concrete e reali, ed ecco che dispongono di “ispezionare” il corpo di Gigliola, ponendo in essere, in modo del tutto arbitrario, una perizia ginecologica – e chissà perché, nulla emerge da tale perizia invasiva e lesiva della dignità di Gigliola.
Eppure, parossisticamente, anche senza un singolo brandello di prova, Gigliola Pierobon viene condannata per il sol fatto di aver impudicamente detto la verità.
Non passano molti anni che nel 1978, il 22 maggio, con 308 voti favorevoli e 275 contrari della Camera e 160 voti favorevoli e 148 contrari del Senato, finalmente viene promulgata la legge che depenalizza l’aborto, colma di storture, traboccante di contraddizioni. È il volto di un’Italia ancora avvolta tra le spire di un perbenismo cattolico ormai sul viale del tramonto; è il volto di un’Italia che ha scelto di non resistere più ai colpi di un’ormai sconfitta Democrazia Cristiana; è il volto di un’Italia che ha dovuto inghiottire anche l’amaro boccone di chi, con tutte le sue forze, ha osteggiato l’emanazione di questa legge.
Perché il bel Paese vanta, tra le tante, una tradizione secolare: boicottare sempre, perennemente il riconoscimento dei diritti e delle libertà, soprattutto quando ad essere protagonista è il corpo della donna e l’autodeterminazione di quest’ultima.
Non stupisce, infatti, che all’indomani dell’approvazione della 194/1978, nel 1981, subito siano state raccolte firme per indire un referendum diretto all’abrogazione della stessa legge. Tale votazione non diede i risultati sperati, e tutt’ora la legge 194/1978 continua ad occupare una posizione di rilievo all’interno del nostro ordinamento giuridico.
Eppure, se non ci si è riusciti con il referendum, l’espediente per sterilizzare, deprivandola di valore, tale legge si individua proprio nell’art. 9 che attribuisce ai medici ginecologi il diritto all’obiezione di coscienza, vale a dire quel «diritto a non essere costretti a tenere comportamenti in contrasto con i dettami della propria coscienza».
Nel nostro bel Paese, si contano almeno 15 ospedali il cui personale è al 100% obiettore di coscienza, e, scandalo degli scandali, talvolta la coscienza è l’ultimo degli specchi cui aggrapparsi per scegliere di non attuare tale diritto così contrastato. Perché non siamo al cospetto di alcuna disobbedienza civile dai tratti rivoluzionari, non c’è nessuna Antigone che lotta per il riconoscimento di una legge giusta contro una ingiusta; al contrario, il vero motivo è sempre e solo uno soltanto: il vil denaro.
Non è un caso che quando la richiesta di interruzione di gravidanza venga avanzata nei confronti di medici operanti presso cliniche private, qualunque affannoso dubbio, qualsiasi fervente credenza religiosa, qualsivoglia dilemma shakespeariano moraleggiante, si dissolve in un batter d’occhio; al contrario, nelle strutture pubbliche, disdegnate dal dio denaro, gli obiettori si ‘riproducono’ a macchia d’olio.
In un altro Paese, magari meno ‘bel’, sarebbe fin troppo ordinario auspicarsi un intervento dello Stato per porre fine a tale odissea e, finalmente, garantire l’effettività di un diritto così pregnante, così importante, così fondamentale. Anzi, in un altro Paese, meno ‘bel’, forse non ci sarebbe nemmeno bisogno di affannarsi, perché quello stesso diritto già sarebbe pacificamente riconosciuto ed esercitato.
Ma noi no. Noi dobbiamo esser fedeli alle nostre tradizioni nei secoli dei secoli e, se ci viene lo sghiribizzo di compiere un passettino piccolo verso quel miraggio chiamato “eguaglianza”, o peggio ancora “libertà”, ne compiamo altri 100 indietro: del resto, si sa che in Italia, il gambero è uno dei prodotti prediletti; perché non imitarlo anche nella vita quotidiana, nell’approvazione delle leggi, in quei referendum che sanno di anacronismo condito con ipocrisia?
La risposta riecheggia nelle aule parlamentari, che potrebbero fungere da eccellente marchio di prodotto per i gamberi stessi. Perché se si alza la voce di qualcuno che, invece del gambero, vorrebbe imitare la tartaruga, dirigendosi anche lentissimamente verso un cambiamento, una maggior tutela, verso l’efficacia di un diritto seppellito sotto detriti fatti di censure, quel qualcuno viene prontamente stroncato.
Perché se a rivendicare la libertà del proprio corpo è una donna che sceglie consapevolmente, che eroicamente ripudia lo schema donna-madre – e anzi, della maternità nulla vuole saperne –, se è una donna che afferma il diritto all’autodeterminazione, anche le più piccole istanze di cambiamento verso una più strutturata protezione di quel diritto stesso, vengono risucchiate istantaneamente, cedendo il passo ad un passato che ha tutto l’aspetto di un patriarca che decide per gli altri, per il quale la libertà di scelta non è altro che un miraggio, perché bisogna sempre obbedire al dettame della Chiesa.
La verità è che il nostro bel Paese è troppo indaffarato in altro, troppo affaccendato in questioni sempre più importanti di una donna che vuole decidere autonomamente per sé, perché le si concederebbe eccessiva libertà, e con troppa libertà poi comincerebbe a pretendere sempre più diritti, persino ad avanzare l’assurda richiesta di essere uguale ad un uomo, in ogni senso e sotto ogni aspetto.
E guai a far accadere una cosa del genere: si sarebbe poi colpevoli dell’estinzione dei gamberi. E poi chi lo sente il WWF dello Stato del Vaticano?