Al suon della riforma, l’Associazione Nazionale Magistrati sciopera.

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L’Associazione Nazionale Magistrati proclama per il 16 maggio l’astensione dalle attività in segno di protesta contro la Riforma Cartabia, già approvata alla Camera e in attesa di discussione in Senato. Gli animi sono accesi, la strada per una soluzione condivisa è più impervia di quanto non si credesse.

Cosa prevede la riforma?

Sorprende che solo ora si stia parlando della questione, perché quella che oggi conosciamo come la “Riforma Cartabia” in realtà era sul tavolo già da qualche anno: il disegno di legge venne presentato durante il Governo Conte II dal relativo Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Col passaggio di consegne, il Governo Draghi è ritornato sul progetto, rimettendo mano al testo a cui l’attuale Guardasigilli, coadiuvata dalla Commissione Luciani (nominata appositamente per lavorare sul tema), ha apportato significative modifiche, sulle quali ha avuto modo di pronunciarsi anche il Consiglio Superiore della Magistratura in un articolato parere.

In linea generale, l’obiettivo è riformare l’ordinamento giudiziario, adeguando anche quello militare, attraverso l’introduzione di norme concernenti l’intera materia organizzativa e disciplinare: l’eleggibilità, il ricollocamento in ruolo dei Magistrati, la costituzione e il funzionamento del CSM. Si tratta di un cambiamento ormai necessario perché previsto nel PNRR; pertanto, è propedeutico all’ottenimento e all’utilizzo dei fondi europei stanziati per la ripresa post pandemia.

Scendendo nel particolare, sono due i punti che fanno più discutere: l’eliminazione delle liste a sostegno della candidatura per i togati interessati all’elezione alla carica di Consigliere del CSM e la partecipazione degli Avvocati alla valutazione di professionalità dei Magistrati. L’impressione è che ci sia una forte resistenza a veder mutare un sistema secolarizzato, che ha funzionato così bene per coloro che ne fanno parte, ma che – esattamente per la stessa ragione – spinge gli altri professionisti del settore ad auspicare un’inversione di rotta.

Quali sono le novità controverse?

C’è da dire che i punti sopra accennati sono oggetto di due dei cinque quesiti referendari, sui quali si dovrebbe votare il prossimo 12 giugno. Va da sé che, qualora dovesse giungere a compimento la riforma, almeno su questi non ci sarebbe più, di base, il testo su cui i cittadini sono chiamati ad esprimere l’eventuale consenso all’abrogazione; a meno che non intervengano degli emendamenti in Senato, che facciano cadere la sovrapponibilità tra i quesiti e il testo della riforma. Da qui, si aprirebbero nuovi scenari.

Venendo al primo, attualmente un Magistrato che voglia presentare la propria candidatura a Consigliere del CSM deve procurarsi da 25 a 50 firme a supporto della stessa. Con la riforma – e anche col referendum – ciò che si vuole fare è eliminare questa regola, così da permettere all’aspirante Consigliere di presentare la propria candidatura scevra dal supporto di qualsivoglia lista. In questo modo, dovrebbero depotenziarsi le cd. Correnti – dei filoni ideologico-politici interni alla Magistratura – e il singolo candidato verrebbe valutato unicamente per le sue qualità personali e professionali, senza tenere conto né di una possibile adesione ad una specifica Corrente né del peso d’influenza che quest’ultima può spiegare.

Quanto al secondo, va premesso che periodicamente i Magistrati sono sottoposti alle valutazioni di professionalità e competenza da parte del CSM sulla scorta dei pareri forniti dai Consigli Giudiziari, vale a dire degli organismi territoriali composti da Magistrati, Professori Universitari e Avvocati. La particolarità sta nel fatto che ad esprimere le valutazioni in discorso sia solo la componente togata, di tal ché il ruolo della componente laica si riduce a quello di una silente spettatrice. Ancora una volta, con la riforma – e anche col referendum – si punta a coinvolgere pienamente sia i Professori Universitari che gli Avvocati nella formazione del tanto temuto fascicolo, perché il meccanismo vigente creerebbe una sovrapposizione tra controllore e controllato che inficerebbe l’attendibilità e l’oggettività delle valutazioni, favorendo la logica corporativa.

Da dove giungono le critiche?

La Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha commentato con pacato entusiasmo l’approvazione della riforma, dicendosi contenta del risultato raggiunto, reso possibile soprattutto dall’ampio dibattito che si è venuto a creare tra le forze politiche, ma mostrandosi ben consapevole che “tutto è perfettibile”. Fra queste forze, di certo la più dubbiosa è stata Italia Viva che, per il tramite del proprio leader Matteo Renzi, ha giudicato la riforma Cartabia inutile, a differenza della Bonafede che riteneva invece dannosa. Insomma, un’opinione non positiva, ma nemmeno costruttiva.

Se però ai dissapori della politica siamo abituati, quelli provenienti dalla stessa Magistratura fanno storcere il naso perché appaiono, agli occhi dei colleghi giuristi, un tentativo di influenzare la discussione parlamentare e, quindi, la funzione legislativa. Secondo Vinicio Nardo, ad esempio, componente dell’Ufficio di Coordinamento di OCF: “L’iniziativa non è di marca sindacale, volta a regolare i rapporti dei Magistrati con lo Stato datore di lavoro… non si tratta solo di espressione del libero pensiero di una somma di singoli Magistrati, ma anche dello sconfinamento di un Ordine dello Stato nelle prerogative di un Potere dello Stato che (a differenza dell’ANM) ne assume la responsabilità politica“.

Per la Magistratura – nel complesso, beninteso – la riforma costituirebbe una sorta di voglia di rivalsa nei suoi confronti, un regolamento di conti dettato dall’insoddisfazione popolare accumulata negli ultimi anni tra errori giudiziari, lentezza dei processi, mancate risposte di giustizia, prescrizioni maturate solo per l’inattività degli uffici e percepite quali buone uscite per gli accusati di determinati delitti, che hanno fatto dimenticare la ratio di quest’istituto. L’astensione dalle udienze proclamata per il 16 maggio si giustifica per l’esigenza di far ascoltare le ragioni del dissenso, così da aprire un ulteriore banco di dialogo per nuove modifiche. I timori dei togati sono stati efficacemente riassunti nel pensiero espresso dal Segretario Generale dell’ANM, Salvatore Casciaro, che considera la riforma “permeata da logiche aziendalistiche che mira all’efficienza e pensa ai tribunali come a catene di montaggio, che forniscono, possibilmente in tempi rapidi, un prodotto; poco importa se sia o meno di qualità. Una riforma che altera profondamente il modello costituzionale di Giudice e che è animata da risentimento della politica, nonostante siano passati trent’anni da Mani Pulite”.

Durissima la risposta dell’Avvocatura, che non ha tardato ad arrivare. L’Avv. Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali, ritiene l’atteggiamento della Magistratura estremamente di chiusura, indice della sensazione di assalto con cui si vive ogni proposta di riforma. Riportando le sue parole: “Non contesto il diritto di sciopero, che anche i Magistrati hanno, ma trovo davvero sorprendente che si voglia negarne l’evidente significato. La Magistratura italiana contesta ‘una legge in fieri’, e questo significa che l’Ordine Giudiziario vuole esercitare un potere di interdizione nei confronti di Governo e Parlamento. Le ragioni dichiarate dello sciopero sono evidentemente pretestuose. Il fascicolo per le valutazioni professionali esiste già ed i criteri di valutazione fissati dalle circolari del CSM sono esattamente gli stessi di quelli previsti dalla riforma; la quale, però, vuole che nel fascicolo confluiscano tutti i provvedimenti adottati dal singolo Magistrato e non un ‘campione’ degli stessi, di fatto selezionati dallo stesso Magistrato, come avviene oggi. Le ragioni non dette sono invece quelle vere. La Magistratura italiana non tollera che il legislatore metta mano all’enorme, indebito potere che ad essa deriva dal fenomeno dei Magistrati fuori ruolo, attraverso i quali la Magistratura controlla e condiziona la politica giudiziaria del Paese.

A ben vedere, il clima non è dei migliori considerando che si sta discutendo della riforma di uno dei Poteri dello Stato che, con la propria attività, incide direttamente sulla vita delle persone. È doveroso esprimere la propria opinione, così come proporre emendamenti e punti di incontro, ma – dall’esterno – ciò che traspare è un bisogno di difesa della categoria d’appartenenza, sia dall’uno che dall’altro lato, che fa perdere di vista quello che dovrebbe essere l’obiettivo alla base di ogni intervento legislativo: il miglioramento. È come se si stesse spostando la bussola del discorso e, di conseguenza, pure del dibattito pubblico – cosa che sta avvenendo anche per i referendum, di cui nessuno parla approfonditamente – creando, ancora una volta, uno schieramento tra tifoserie: con i Magistrati o contro i Magistrati. Ha senso?

La riforma della giustizia viene invocata ad ogni giro di boa – per richiamare un’espressione tornata in voga di recente – ma, spesso e volentieri, è spinta da turbamenti, convinzioni, sentimentalismi generali che non hanno nulla a che vedere con le ragioni concrete che davvero ne fanno sorgere l’esigenza. Bisognerebbe ragionare con dati alla mano, facendo analisi minuziose dei processi degli ultimi anni e del funzionamento dell’intera macchina giudiziaria, ascoltandone gli operatori con le relative istanze e i cittadini, per evitare che si spezzi quel legame di fiducia verso le istituzioni su cui ha richiamato l’attenzione anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio d’insediamento.

Il PNRR è una grande occasione, sarebbe davvero un peccato sprecarla per pure prese di posizione.

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Prat. Avv. iscritta presso il Foro di Napoli Nord, con esperienza maturata in ambito penalistico.
Autrice del podcast "Basta che sia penale" e membro della Redazione de Il Controverso.
Scrive di politica, di diritti e di cultura, perché il cinema e la letteratura arrivano lì dove nient'altro riesce.

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