Nel maggio del 1971 una manifestazione contro il ‘mammismo’ accende la capitale. La folla forte si scaglia contro ogni narrazione che definisce eroica la scelta di una donna di mettere la famiglia prima di sé stessa, senza chiedersi se in fondo abbia avuto altra scelta. Nel maggio 1971, la folla si scaglia contro ogni raffigurazione che vede il corpo femminile prima madre e poi donna. A Roma, Largo Argentina trema, per rifiutare l’idea che abbandonare ogni aspirazione per essere madre sia sempre la scelta giusta, per rifiutare la convinzione che il lavoro di cura sia proprio delle donne, perché scritto indelebile nel loro DNA.
A maggio 2022, un’importante imprenditrice italiana calpesta 51 e più anni di lotta all’emancipazione femminile in soli 12 minuti di intervista.
“In Italia purtroppo c’è un problema: quando metti una donna in una carica importante non ti puoi permettere di perderla per due anni”.
Le parole con cui Elisabetta Franchi presumibilmente intendeva avviare una critica al sistema di tutela italiano si sono rapidamente rivelate un discorso egoriferito in cui la manager si propone come ideale di liberazione femminile, portando avanti nella sua azienda strumenti e meccanismi sessisti, illegali, e facendo passare il tutto per emancipazione.
La soluzione che Elisabetta Franchi propone, infatti, non è un contro-intervento che favorisca tutte quelle tutele che alle donne mancano, né tanto meno un supporto alla necessità di coniugare vita lavorativa e genitorialità: un supporto che ci si potrebbe aspettare in un’azienda a direzione femminile con un fatturato pre-covid di oltre 120 milioni di euro. La soluzione che Elisabetta Franchi ha scelto di adottare nella sua azienda, invece, è un’imprenditoria impaziente, che minuziosamente sceglie un vertice tutto al maschile perché se da un lato, come dice l’imprenditrice, la maternità è per l’azienda una perdita di tempo, dall’altro, come lei ribadisce, per le donne la gestione della famiglia “è un dovere scritto nel nostro DNA”. Perché gli uomini, quelli a capo della sua azienda che gestiscono milioni di euro e responsabilità, “sono dei bambinoni”. Suggerimento quindi esplicito nelle parole dell’imprenditrice è quello, ancora nel 2022, di fare una scelta: famiglia o carriera. Suggerimento a target femminile, però, perché come chiarito più volte nel suo discorso, ai vertici del marchio ‘Elisabetta Franchi’ ci sono soprattutto uomini. Che sono quindi prima uomini e poi papà. Al contrario delle donne, che come lei ci conferma, nel 2022, sono ancora prima mamme e poi donne.
Sul piatto delle opzioni l’imprenditrice italiana posiziona però un’alternativa. Seguire le sue orme: “due giorni dopo il mio parto cesareo io ero in ufficio ancora con i punti”. L’opzione, chiaramente, non è per tutte. D’altronde, è illegale. Così Elisabetta Franchi sceglie il meglio per la produttività del suo marchio, e il meglio, non include le donne come possibili conduttrici della sua azienda. O almeno, non tutte. Nelle (agghiaccianti) risate generali, infatti, l’imprenditrice dichiara di assumere per posizioni di vertice solo quelle che lei definisce le “-anta”. Cioè donne dai 40 anni in su perché, chiarisce “se dovevano sposarsi, fare figli, divorziare, l’hanno già fatto e sono lì belle tranquille con me e lavorano h24. È importante”. In sostanza il ritratto di un percorso già scritto che inizia con l’assoluzione dei propri vezzi e doveri da donna e termina con la schiavitù, 24 ore al giorno. Il tutto contornato da risate e battute “goliardiche” a tentare di nascondere quella che è, a tutti gli effetti, discriminazione di genere sul lavoro. Quello che è, a tutti gli effetti, un criterio di selezione illegale.
D’altronde, tra gli assunti di Elisabetta Franchi, c’è quello per cui le donne, avendo nel proprio DNA il lavoro di cura, non necessitano di altre mansioni, a loro il lavoro mica serve. Una scia pericolosa quella di Elisabetta Franchi che urla la validità di un modello genere=ruolo, che vuole il padre in posizione lavorativa apicale nell’azienda e secondaria a casa, e la madre, prima di tutto, madre e poi, forse, dopo i 40, in grado di autosostentarsi, perché finalmente adatta a lavorare. Posizione tanto più pericolosa se guardiamo ai dati che ci dicono che negli ultimi 20 anni in Europa la percentuale di donne cha ha avuto il primo figlio dopo i 40 anni è più che raddoppiata. Dati che riflettono ancora una volta la difficolta femminile di conciliare vita personale e vita lavorativa e che mostrano chiaramente la difficile posizione femminile che ad un certo punto della vita si dovrà trovare nella posizione di scegliere: famiglia o lavoro?
Di questo passo, poi, Elisabetta Franchi si ritroverà senza nemmeno una donna nel suo team perché adesso anche le “-anta”, nel tentativo di sfuggire alla quasi obbligata scelta carriera-famiglia, fanno figli e non sono più, come da lei suggerito “all’ultimo giro di boa”. D’altronde, la stessa genitorialità pare quasi uno schema già imposto in uno Stato che riconosce agli uomini solo 10 giorni di congedo di paternità obbligatori, mentre concede alla madre 5 mesi. Nella società che quindi ad oggi esiste, e continua ad essere alimentata da questo tipo di leggi e da questo tipo di imprenditorialità, l’organizzazione della riproduzione sociale fa affidamento sui ruoli di genere, ruoli che queste stesse leggi e questa stessa imprenditorialità continuano a riproporre ed imporre.
Qual è quindi il problema alla base della narrazione di Elisabetta Franchi? Evidenziando che LEI ce l’ha fatta, ammettiamo e, soprattutto, accettiamo, che le donne abbiano delle difficoltà in più nel mondo lavorativo ma, con i dovuti sforzi e sacrifici, si può arrivare lontano come lei. Sforzi e sacrifici non richiesti però agli uomini, a parità di posizione.
La domanda che dovremmo farci è quindi: perché le donne dovrebbero accettare di vivere con così tante difficoltà in più e così tante tutele in meno? Perché le donne devono accettare di convivere con discorsi e condizioni che le rinchiudono entro limiti prestabiliti e affidano loro doveri che vengono definiti innati? Perché per poter raggiungere determinati traguardi (che nel caso del marchio Elisabetta Franchi si traducono in un lavoro di 24 ore al giorno) le donne devono assoggettarsi a tutte quelle dinamiche marginalizzanti contro cui le si invita non a battersi ma a subordinarsi?