La prostituzione è esistita, esiste e esisterà ancora per molto tempo: questa è l’opinione di chi scrive su un fenomeno che, da secoli, si preferisce far finta di non vedere, in quanto considerato come mestiere “sporco”, adatto alle meretrici (dal latino “coloro che guadagnano” col proprio corpo), donne emarginate dalla società, ma dalla stessa tollerate, criticate pubblicamente, ma amate nel privato come ha cantato Fabrizio De André in Bocca di rosa e Via del Campo.
Quindi, la prostituzione è il mestiere di cui non si parla, un fenomeno umano che fa sobbalzare le parrucche dei benpensanti che ritengono che l’unica risposta al problema sia la severa repressione. Quante volte si vedono queste ragazze, quasi sempre di paesi stranieri, che passano le proprie notti in attesa del prossimo cliente al freddo d’inverno ed al caldo d’estate, vicino a delle squallide utilitarie, unico posto “tollerato” e fuori città dove poter esercitare il proprio mestiere. Un fenomeno che è controllato, qui in Italia, dalle organizzazioni criminali legate ai paesi di provenienza che fanno emigrare le proprie ragazze per metterle velocemente su strada. Del resto, una donna senza documenti d’identità è la vittima perfetta: lavora e produce un guadagno, per altri, vivendo qualcosa che non è vita, ma una catena industriale di rapporti consumati con sconosciuti che farebbe impallidire una catena di montaggio.
Il punto, però, non è la scelta, che se libera è perfettamente legittima; il problema è la tutela di donne che a questo ufficio sono costrette, che lavorano (e non poco) ed in cambio ottengono soltanto sfruttamento, schiavitù, malattie e disperazione. E la somma di questi elementi è sicuramente da ricercarsi nel momento in cui questa professione non viene esercitata nell’ambito di tutele sindacali, legali e morali a cui hanno diritto tutti gli altri mestieri. Questo per un’aprioristica scelta morale, avallata indirettamente dalla legge Merlin, che riconduce il fenomeno della prostituzione al ghetto, alla periferia degradata socialmente. Perché, evidentemente, se anche l’impiegato, l’imprenditore o il padre di famiglia con buona posizione “va a puttane”, il fenomeno resta comunque inenarrabile, diventando lo strato di polvere da nascondere velocemente sotto il tappeto.
Va detto che, oggi, in Italia, non sarebbe corretto parlare di “legalizzazione”, ma di “normazione” e “regolamentazione” in quanto, teoricamente, l’attività di prostituzione non è illegale in Italia, ma sono illegali moltissime condotte a questa collegate, quali il favoreggiamento (art.3 n.8 L.75/1958 detta “Legge Merlin”) e lo sfruttamento (art. 3 nn. 1-7 ibidem) sancendone una criminalizzazione nei fatti. La prostituzione, come attività, vive nel terreno dell’ignoto normativo in quanto, salvo il quadro penale, non c’è alcuna normativa fiscale, amministrativa o civile che ne regoli ambiti, diritti e tassazione, è un mestiere “che non esiste”, normativamente parlando, cioè ci sta, ma si fa finta di non vederlo, come detto sopra. In Italia, poi, si sono avuti momenti di repressione alternati a momenti di tolleranza, che continuano a far vivere nella precarietà coloro che esercitano questo mestiere per strada.
Quindi, da questa raccolta di motivi, sembrerebbe che sia ora di “normare” la prostituzione in Italia, definendo ambiti, tutele e diritti degli uomini e delle donne che scelgono di esercitarla. Ma questi motivi, per quanto giusti, non sono, da soli, sufficienti a garantire l’autonomia, il rispetto e la libertà di chi esercita questa professione. Non è un caso che, nei paesi dove si è superato l’ostacolo morale e si è deciso di regolare quest’attività, si è arrivati, ancora una volta, allo sfruttamento attraverso altre aree grigie della legge.
Ci si riferisce al modello della Germania, tra gli ultimi paesi a regolamentare il fenomeno, dove si è visto l’emergere di un colossale giro d’affari legato all’attività regolamentata di prostituzione. Eppure, da più parti, abbondano articoli che raccontano molti retroscena di questi paesi dove, dietro il volto di un progressismo ideale, e condiviso da chi scrive, si è sviluppata un’industria dedita allo sfruttamento di donne, principalmente straniere, ma capace di generare miliardi di euro d’introiti. Tra questi anche un servizio di PresaDiretta dove veniva raccontato il modello tedesco con le storie di alcune donne che venivano da altri paesi, spesso extra-UE, “riempendo” le stanze e gli orari di “bordelli” che restano aperti anche 24 ore, ma ancora sarebbero numerosi gli articoli da citare, tra cui questo passaggio di un articolo di “The Bottom Up” che dice:
Per i più entusiasti, esistono bordelli con tariffe a prezzo fisso. I clienti pagano da 50 a 100 euro per entrare e poi possono avere tutte le donne che vogliono: sono elegantemente chiamati bordelli “all you can fuck”.
The Bottom Up – Dentro le case chiuse tedesche: la tratta al tempo della prostituzione legalizzata – 22 Marzo 2017 di Angela Tognolini
E, insieme a questi articoli di stampa italiana, un articolo del Telegraph britannico dal titolo eloquente: “Welcome to Paradise”. In quest’articolo, in particolare, vengono analizzati i “risultati” di oltre 10 anni di regolamentazione della prostituzione nel paese dell’Oktoberfest, un lungo reportage che, detto in poche parole, mette a nudo tutte le contraddizioni di un’iniziativa che, pur partita con intenti lodevoli, è finita per trasformare lo sfruttamento in business e la la schiavitù delle donne in contratto.
Qui viene in rilievo non la, comunque decisiva, questione morale legata a uomini che, consapevolmente, sfruttano delle donne per placare i propri appetiti sessuali, dentro e fuori una relazione, ma la ben più rilevante questione della libertà. Infatti, in un mondo “ideale”, la normativa tedesca del 2002 avrebbe dovuto arginare il fenomeno dello sfruttamento delle donne e, invece, è stato capace di creare un’entrata per le casse dello Stato, una nuova categoria ai fini IVA ed un business che è capace di buttare nel tritacarne degli esseri umani che non hanno la capacità di difendersi. Del resto, in una società libera, la scelta di regolamentare la prostituzione sarebbe perfettamente legittima nel pieno rispetto del diritto all’autodeterminazione sancito dalle costituzioni e dai trattati di tutto il mondo, ma diventa una scelta pericolosa quando, dietro il vessillo della libertà, si celano persone pronte a sfregarsi le mani per buttarsi nel nuovo business.
Ecco, allora, cosa è diventata la prostituzione regolamentata in Germania: da normativa nata per tutelare la libertà delle persone che scelgono questa professione, si è trasformato in un altro drago capitalistico che calpesta diritti e dignità, ma non lo fa come le aziende produttive o finanziare che rubano “solo” il fisico ed il salario: questo drago tocca la parte più intima delle persone, il loro corpo, in una rinnova versione dei lenones latini e tale discorso può venire esteso, con diverse gradazioni, ad altri Paesi dove la prostituzione è regolamentata con allarmanti report da Olanda ed Austria
Dunque, in base a quanto riportato, non è sbagliato dire che la legge Merlin, nata proprio da una socialista con l’intenzione di combattere lo sfruttamento che c’era nella case chiuse, ha fallito, e lo ha fatto perché, invece di regolare in maniera sistematica il problema, ha avuto la tracotanza di ritenere che con un tratto di penna ed alcune pagine di una legge si potesse eliminare il fenomeno. Eppure questo risultato non è stato raggiunto nell’Italietta catto-conservatrice degli anni Cinquanta né nel progressista “paradiso” tedesco degni anni Duemila: questo perché non saranno pochi tratti di penna ad eliminare un fenomeno sociale che esiste da sempre e neanche una regolamentazione “alla buona” riuscirà a garantire i diritti di chi esercita la professione.
Ed è per questo che, consapevoli del fallimento della Merlin e del fallimento tedesco, è giunta l’ora di cercare una nuova strada che possa mediare tra la constatazione che il fenomeno non è suscettibile di repressione con l’evidenza che lo sfruttamento da parte di avventurieri del capitalismo non si è fermato neanche nella “civile” Germania, tutt’altro. La terza via tra questi due estremi consiste nell’apposizione di serrati paletti normativi ed in una strettissima sorveglianza da parte degli Ispettorati del Lavoro. Ed è proprio su quest’ultimo punto che corrono i timori di chi scrive: se, ammesso e non concesso, si arriverà ad una regolamentazione della prostituzione in Italia (cosa non scontata, visto il perdurante clima reazionario di questo Paese), allora il vero timore corre verso la sorveglianza che quest’organo del potere pubblico dovrebbe compiere, quando, lo stesso, non è stato capace di impedire la morte di due giovani studenti che stavano facendo la famosa “alternanza scuola-lavoro”, la quale, di per sé, dovrebbe essere uno degli ambiti più tutelati.
Un ultimo fattore da considerare è legato ai tempi che viviamo, in quest’epoca di guerra e pandemia, d’incertezza e di paura, ci sono molti conflitti aperti nel mondo, uno dei quali sul suolo europeo. Infatti, il conflitto ucraino sta facendo affluire nell’Unione Europea milioni di profughi che quella guerra non l’hanno certamente voluta e quanti, tra questi, saranno donne che non conoscono né lingua, né costumi del paese che le ospiterà? Quante andranno ad ingrossare le silenziose fila di quelle persone che vivono lo sfruttamento secondo il metodo italiano o tedesco? È questo uno di quei periodi dove lo sfruttamento, regolamentato o meno, potrà trovare nuova manodopera che si aggiungerà all’ingranaggio di questa vera e propria industria, andando ad alimentare i lauti bilanci dei bordelli tedeschi o delle mafie italiane.
Ma il dibattito italiano tra la regolamentazione e lo status quo sulla prostituzione svela molte delle sfaccettature del mondo moderno, un mondo dove le persone sono oggetti e dove persino i corpi possono diventare oggetto di scambio, e non si parla delle veline in televisione o dei filtri di Instagram, si parla della mercificazione là dove fa più male: nell’intimo del proprio corpo. Infatti, se la scelta fosse pienamente libera e le tutele dei diritti fondamentali fossero rispettate, allora non si vedrebbe il motivo per cui non regolamentare questo fenomeno attraverso la legge. Il problema italiano, già risalente alla legge Merlin, è la faciloneria con cui si affrontano temi ritenuti “scomodi” come questo o, ancora peggio, vengono visti come un’opportunità per rimpinguare le casse dello Stato ed offrire un nuovo territorio per il capitalismo.
Per cui andrà risolto questo problematico nodo del garantire che la prostituzione sia una vera “libera professione” e non un altro lavoro dipendente, una scelta personale da farsi in piena autonomia e non un altro tritacarne in cui gettare gli esseri umani. Non si rinnega, qui, la necessità di una regolamentazione ed il superamento dello stigma sociale legato alle persone, uomini e donne, che esercitano quello che viene chiamato, con la puzza sotto il naso, “mestiere” (pur se sarebbe preferibile parlarsi di professione), ma si afferma, con forza, la necessità di unire ai diritti di libertà a quelli sociali in una visione integrata ed eclettica che osservi del fenomeno tutte le sfaccettature e non solo, come nel caso tedesco, quelli legati al denaro.