La fine di un incubo, il sollievo della rinascita: 25 aprile festa della liberazione.

Tempo di lettura: 4 minuti

Antonio Rossi, giovane ufficiale del Regio Esercito italiano, aveva ventiquattro anni quando, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, come tantissimi altri suoi coetanei si trovò davanti a una scelta tragica: “subire” la chiamata all’adesione alla Repubblica fascista di Salò oppure scegliere la strada del “tradimento”, spogliandosi dei panni della dittatura e vestendo quelli della libertà.

Antonio scelse la libertà e così diede inizio alla “sua” Resistenza al nazifascismo, al pari di tanti altri che, come lui, sognavano un domani migliore per la propria e per le future generazioni.

Dislocato a combattere sul fronte jugoslavo, dopo l’armistizio fu fatto prigioniero dai tedeschi insieme al suo battaglione. Trasferito inizialmente dalla Jugoslavia a Trieste a bordo di una nave, fu poi caricato su un treno diretto in Germania, in un campo di prigionia. Non era certo un treno bestiame, di quelli usati per l’ignobile deportazione degli ebrei, ma un treno più confortevole, destinato al trasporto di prigionieri di guerra col grado di ufficiale. Il “comfort esclusivo” consisteva nella presenza, sul tetto dei vagoni, di soldati tedeschi armati di mitragliatrici, appostati in modo da rendere vano qualsiasi tentativo di fuga.

Una foto d’epoca di Antonio

I tedeschi, però, ignoravano un dettaglio: il forte istinto fraterno dei ferrovieri italiani che, durante il viaggio, fingevano di non poter spingere i treni a velocità più sostenuta, così da agevolare la fuga di quanti avessero avuto la forza e il coraggio, aiutandoli a saltare dai vagoni e scappare, senza mai voltarsi, verso un destino almeno in potenza più sicuro.

Antonio così fece: approfittando della notte, insieme ad alcuni compagni, saltò dal treno e, sfidando le raffiche delle mitragliatrici, scappò con tutta la forza che aveva.

Quella fuga non era una scelta come le altre. Si trattava di rinnegare una vita non scelta, ma subita: combattere altri giovani, suoi simili, dai quali lo dividevano la lingua e la provenienza geografica, per inseguire i deliri di un’epoca oscura, che non si faceva scrupoli a mandare a morire i propri figli in nome dell’egemonia della propria nazione sulle altre.

Dopo tanta corsa, rifugiatosi sotto vecchi vagoni fermi sui binari della vicina stazione di Casarza della Delizia in Friuli, scorse nelle tenebre una luce, all’inizio fioca, poi più forte. Lo colse il timore che potesse giungere la fine, il cuore prese a battere a mille, fra i brividi la vita gli scorse davanti agli occhi: era scappato, sarebbe incorso in fucilazione sicura. Tutto, però, prese una piega diversa, l’agitazione si tramutò in felicità nell’udire una voce amica, quella di ferrovieri italiani “addetti” al recupero dei giovani connazionali, militari e non, in fuga dai tedeschi.

Trovato riparo a Casarza, ebbe inizio la sua esperienza nella Resistenza. Aggregatosi al gruppo partigiano Giustizia e libertà, entrò a far parte nelle Brigate Osoppo, Battaglione Lupi della Sila, con il ruolo di caposquadra combattente e il nome di battaglia Tiberio. Lo studio in collegio della lingua tedesca gli permise di ricoprire un ruolo importante nell’organizzazione delle operazioni e nella mediazione sul trattamento degli oppressori fatti prigionieri. Certo questi non trovarono la risposta delle armi, ma quello che solo il valore delle parole può dare.

Ecco, molte volte si riscontra una tendenza ad enfatizzare queste storie – forse col pregiudizio che si tratti di qualcosa del passato – e a definirle eroiche, certo non scontate. Tuttavia, osservate dal punto di vista di chi le ha vissute in prima persona, esse vanno considerate comportamenti dettati dalla necessità di quel contesto: la necessità di non macchiarsi di qualcosa che non si era scelto, ma di iniziare realmente a vivere da principio, secondo libertà.

Ciascuno di coloro che desideravano democrazia e libertà ha avuto un ruolo in quel frangente storico: non importa misurare l’entità maggiore o minore dell’apporto fornito, quanto sottolineare l’aver creduto fortemente in ciò che si faceva. Non sono mancati dolori e tristezze; si sono persi pezzi di vita e sono andati in fumo progetti; è emersa la rassegnazione per una speranza troppo ottimistica in cui credere; fortunatamente, però, si è scorta la luce di un nuovo inizio. Questo è stato il 25 aprile 1945, la Liberazione dal nazifascismo nel nostro Paese.

Il sentimento di tutti, certo, non poté essere quello semplicistico della felicità: fu piuttosto un sentimento di sollievo per la fine di una dittatura e, di lì a poco, della Monarchia. C’era tanto da ricostruire, ma nessuno mai si oppose a rimboccarsi le maniche: troppo grande era il desiderio di rendere giustizia al sacrificio di chi aveva perso la vita per quella libertà.

«A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale»: così recitava il decreto legislativo, emanato dal Luogotenente del Regno, il Principe Umberto di Savoia, futuro e ultimo Re d’Italia, il 22 aprile 1946. Questa ricorrenza, che la Repubblica ha celebrato da allora, è stata istituita e voluta ancor prima della nascita formale della Repubblica democratica, quasi a voler sancire il radicale cambio di passo rispetto a un presente che era già passato e a suggellare quei principi e valori di libertà e democrazia che, di lì a poco, sarebbero stati consacrati e scolpiti nella nostra Costituzione.

Tornando ad Antonio, quella nuova vita, quella riconquistata possibilità di autodeterminarsi lui non se l’è lasciata scappare. Con la Repubblica si è laureato in giurisprudenza ed è divenuto magistrato nel 1948. Ha adempiuto con spirito di servizio, equilibrio, imparzialità e indipendenza non solo il suo lavoro, ma tutto il suo cammino di vita, conclusosi nel 2017 all’età di 98 anni. Schivo e riservato, ha conservato gelosamente la croce di guerra e l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana, riconoscimenti sì autorevoli, ma mai realmente preziosi come l’umanità e la fratellanza di chi lo accolse quando non aveva niente e nessuno.

A mio nonno, grato di averti incontrato sul mio cammino di vita e a tutti i giovani che si sono sacrificati in nome della libertà.

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Anonymous

Ho letto con grande piacere la storia di tuo nonno per gli amici “Totonno “. Lui è mio papà Dino Marra erano legati fin da ragazzi da una fraterna e solidissima amicizia e per mio papà era diventato l’ultimo solido punto di riferimento, a Bellona. L’ho conosciuto anche io fin da quando ero bambina ma non conoscevo questa sua storia molto ben descritta e mi ha fatto molto piacere conoscerla!
Puccia Marra