È il 4 aprile 1977 e Roma diventa teatro della manifestazione in difesa di Claudia Caputi. La marea che manifesta rabbia e dolore arriva ad invadere il Palazzo di Giustizia, a sfidare il corpo di Polizia sotto la sede della RAI. Gli eventi, i giudizi, la marea in rivolta, hanno fatto la storia politica della (dis)parità di genere eppure oggi, a 45 anni da uno degli esempi più emblematici della solida struttura di stereotipi che mantiene l’Italia, il nome di Claudia Caputi risulta pressoché sconosciuto. Eppure, pur dopo 45 anni, la storia di Claudia Caputi ha dei tratti spaventosamente simili alle storie di un giorno e di ogni giorno di cui giornali e telegiornali sono invasi. Storie cicliche, eterne, eventi connessi o sconnessi o, semplicemente, tragicamente similari. Le analisi, tuttavia, mancano. Ogni evento è storicamente e quotidianamente archiviato come episodio isolato. Eppure, leggendola, la storia di Claudia Caputi ne ricorda tante altre.
Claudia Caputi ha 17 anni, arriva a Roma da un piccolo paesino dell’Abruzzo, Villalago. Claudia Caputi cerca un inizio, cerca un lavoro, e approda tramite un’inserzione a casa di Vito Gemma, un impiegato dell’Enel coinvolto però nella malavita romana, in affari di sfruttamento sessuale e droga. La ragazza, appena arrivata nella capitale, si lega all’uomo sia lavorativamente che affettivamente. Non passa molto dal suo arrivo a Roma e il viso di Claudia Caputi finisce su tutti i giornali di cronaca, perché Claudia viene stuprata da un gruppo di 17 ragazzi sul prato della Caffarella. Riesce a riconoscerne alcuni e denuncia lo stupro. Li trascina in tribunale. È il 30 marzo 1977.
Il giorno dopo, invitata dal suo ex capo Vito Gemma per “comunicazioni importanti”, Claudia Caputi si reca sulla Portuense. Al posto dell’uomo, però, si presenta un gruppo di ragazzi che sfregiano il corpo e il volto di Claudia Caputi con circa 300 tagli. Claudia decide di parlare, ancora, ma la sua testimonianza risulta inizialmente confusa e con alcuni punti oscuri. Claudia Caputi dichiara apertamente di aver paura, di voler parlare chiaramente solo una volta al sicuro. I giudici, però, la accusano di aver “inventato tutto”. La accusano di volersi ergere ad eroina del movimento femminista da cui, secondo il PM, sarebbe strumentalizzata.
Claudia Caputi scrive così un memoriale, da Trieste, in cui cita nomi, cognomi, luoghi, situazioni. Racconta di una prostituta dell’EUR abusata, malmenata, massacrata da martellate che l’hanno resa cieca e inebetita. Parla di sottrazioni di minori. Di eroina. Di tentativi di fuga mai riusciti. Alcuni nomi erano ben noti alla giustizia italiana. Il PM inquirente Paolino Dell’Anno sostiene, però, che Claudia Caputi si sia inferta da sola centinaia e centinaia di tagli per poter diventare così “simbolo dell’oppressione della donna”. Grave è anche l’eco di queste accuse sul processo contro gli stupratori della Caffarella. I fatti descritti da Claudia Caputi passano pressoché inosservati sotto gli occhi degli inquirenti e vengono così approfonditi da un gruppo di giornaliste, che li confermeranno in alcuni documenti allegati agli atti. Si arriva così al processo, in cui Claudia Caputi, imputata per simulazione di reato, sarà costretta di nuovo a raccontare i dettagli di una violenza e giustificare la sua stessa denuncia, obbligata a spiegare, tra risa di fotografi e giornalisti, che sì, quel giorno, aveva le mestruazioni, ma fu costretta a togliere il tampone, lavarsi e metterne uno nuovo.
Le indagini confermeranno poi la versione di Claudia che, alla fine, sarà assolta dall’accusa di calunnia e simulazione di reato.
Ma cosa ce ne resta oggi? Il nome di Claudia Caputi è poco più di un fantasma, noto solo a chi c’era e a parte del movimento femminista. Eppure, la storia di Claudia Caputi è la storia di Ida Pischedda, uccisa e carbonizzata ma senza giustizia, così come è la storia di Flavia Solo, violentata e picchiata ma non creduta dagli inquirenti. È la storia di un numero di donne che sembra essere senza fine se l’intento fosse quello stilare una lista, nomi in transito sulle testate per 24 ore e poi dimenticati. Nomi emblema della violenza umana, sociale, istituzionale, ma ripetutamente ignorati oppure archiviati. La memoria è quindi un monito che scegliamo di ignorare, dimenticando, e limitandoci a rinnovare una indignazione transitoria ad ogni nuovo caso che decideremo quindi di chiamare “shock”, nonostante tutti quelli che l’hanno preceduto e che seguiranno. La violenza non pare quindi ancora abbastanza per essere considerata sistemica. Accuse, intimidazioni, reticenze. Paura. Ancora. Vivono e poi muoiono, dimenticate, come troppe donne.