Siamo un mondo costruito sulla guerra, che continuiamo ad alimentare

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Non indagare le ragioni che conducono alle guerre significa scegliere la gabbia intellettuale e la cecità. Aderire passivamente all’idea per cui ogni conflitto debba necessariamente portare ad una guerra colma di povertà e disperazione significa annuire ad una storia passata e futura di morti e disgrazie senza assumersi la responsabilità di una valutazione che coinvolga tutte le guerre e che ci permetta di leggere gli eventi attraverso una fondamentale domanda: perché continua ad accadere? 

La guerra lampo costruita a tavolino da Putin non ha funzionato. Stiamo entrando nella terza settimana di guerra. La resistenza dell’Ucraina impedisce alla Russia di avanzare come aveva pianificato e questo sta facendo sì che il conflitto diventi sempre più violento: i bombardamenti colpiscono le persone, gli ospedali, i servizi essenziali alla sopravvivenza. La condanna è unanime, da ogni parte del mondo. Si invoca la pace, si mandano armi. Non è un binomio strano, pace ed armi, è un binomio noto e storicamente resistente. Ci sarebbe da chiedersi, però, se sia un binomio valido. Può un mondo che denuncia la guerra basare il suo equilibrio geopolitico su un’alleanza militare di natura offensiva? Perché questa stessa alleanza militare, la NATO, non è stata sciolta contestualmente alla sua controparte sovietica se il suo unico scopo era il confronto durante la guerra fredda? E, facendo un passo indietro, aggiungendo un interrogativo in più, perché un’alleanza nata con scopi difensivi, nel 1999 si è dichiarata competente nel condurre operazioni militari al di fuori del territorio dell’Alleanza “in risposta alle crisi non previste dall’articolo 5”, trasformandosi così di fatto da muro difensivo a strumento di aggressione militare? Nulla di ipotetico o preventivo, la strategia di attacco è stata messa in atto con le guerre in Jugoslavia (1994-1995 e 1999), in Afghanistan (2001-2015), in Libia (2011) e in Siria, la storia insegna. Noi non impariamo. Dall’est o dall’ovest armi e soldati si muovono in continuazione, invocando ragioni di sicurezza globale, economica, energetica, migratoria. Le relazioni tra gli Stati continuano a reggersi sulle spese militari, le armi, le guerre, gli eserciti, mentre gridano che vogliono solo la pace. Il grido di pace fa eco tra i media, le sale istituzionali, i parlamenti, mentre le grandi multinazionali che smerciano armi, in silenzio, sono sempre più ricche. In Italia, il bilancio del ministero della difesa per il 2022 sfiora i 26 miliardi di euro, con un aumento di 1,35 miliardi. All’approvazione del Parlamento c’è un numero senza precedenti di programmi di riarmo: diciotto, di cui tredici sono di nuovo avvio.

Anche questa volta abbiamo scelto di raccontarci la pace e il rifiuto della guerra, senza però rifiutare gli strumenti che la rendono mortale: le armi. Oltre 20 paesi hanno inviato attrezzatura militare nel conflitto con la Russia armando l’Ucraina. Un’azione controversa, anche se dal sapore giusto, in uno scenario in cui si prega per il minor numero possibile di vittime e la fine del conflitto. La “diplomazia delle armi”, che ci pulisce le coscienze, segue e alimenta le dinamiche della guerra, ci suona nobile, ma miete vittime, ci permette di contribuire, ma funziona? Qual è la differenza tra la diplomazia delle armi e il conflitto aperto? Non ci tiriamo dentro, non ci tiriamo fuori, e rimaniamo sostenitori passivi della guerra costruendo valori di resistenza attorno alle nostre azioni, anziché scegliere di costruire le nostre azioni a partire dai nostri valori.

Non c’è dubbio che in questo conflitto ci siano degli invasori e degli invasi, non c’è dubbio sulla legittima volontà, del territorio ucraino e del suo Presidente, di voler mantenere intatti i confini e l’indipendenza di quello che è a tutti gli effetti uno Stato sovrano. Quello che però da un lato suona come una legittima affermazione di indipendenza, dall’altro suona come una condanna a morte di migliaia di persone che vorrebbero vivere (e non morire) ad ogni costo, e dipinge una coda di corpi per ogni miglio difeso o conquistato. È così che ad ogni parola trionfale di difesa e resistenza, corrisponde un corpo morto. 

L’occidente però non vuole questa guerra e vuole fermare Putin, ad ogni costo. Così, mentre invia armi nello scontro, da lontano continua a guardare il conflitto e sceglie anche la strada delle sanzioni per la Russia, trasformandola nel Paese più sanzionato al mondo con un totale, ad oggi, di 5.581 sanzioni. Anche questo non è uno scenario nuovo per l’occidente e ci muoviamo in un territorio noto: la guerra economica. Uno degli obiettivi espliciti delle sanzioni è certamente il fallimento della finanza, dell’economia e quindi dello Stato del paese colpito. L’occidente vuole aumentare le pressioni sul governo russo, ma l’impatto è molto più grande di così, perché lo fa prendendo di mira principalmente la popolazione civile, che rappresenta al contempo il trampolino di lancio per riuscire a mettere in ginocchio la resistenza di Putin e un danno collaterale. Le sanzioni creano iperinflazione e tagliano forniture per l’edilizia, carburante, beni di consumo, media e risorse, cibo, con un impatto sulla maggior parte della popolazione. Questo significa che a causa delle sanzioni imposte, il popolo russo potrebbe potenzialmente morire di fame, essere colpito da massicci aumenti dei tassi di povertà, perdere l’accesso a medicinali e combustibili adeguati a riscaldamento e trasporti. La guerra economica è appena iniziata e il popolo russo ha già perso l’accesso ai contanti, locali e stranieri, che non sono più disponibili nelle banche. Il rublo perde valore rapidamente, i risparmi delle persone valgono sempre meno mentre l’accesso a beni e servizi è sempre più difficile. Alcuni, non ci sono proprio più. Possiamo raccontarci che è momentaneo, e ce lo raccontiamo, ma gli effetti delle sanzioni non finiscono quando le si rimuove, hanno impatti gravissimi sul futuro della popolazione, la storia insegna. Noi non impariamo. Di nuovo, quindi, niente di ipotetico. Le sanzioni economiche imposte ad esempio all’Iraq dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dal 1990 al 2003, sono state imposte, di nuovo, in nome della governance globale. Con l’inizio dell’iperinflazione e la mancanza di entrate dalle vendite di petrolio causate dalle sanzioni, lo Stato non è stato in grado di pagare gli stipendi. Ciò che seguì fu una massiccia perdita di personale nella maggior parte delle istituzioni governative. Un numero enorme di ingegneri, medici, insegnanti e dipendenti pubblici è stato costretto a lasciare la propria posizione e a fare lavori saltuari e casuali per poter sopravvivere. Un altro chiaro e duraturo effetto delle sanzioni è stato l’impatto della malnutrizione diffusa, e in corso. Il World Food Program e la FAO hanno riferito che, “nonostante le giustificazioni alla loro imposizione, le sanzioni hanno causato privazioni persistenti, grave fame e malnutrizione per la stragrande maggioranza della popolazione irachena, in particolare i gruppi vulnerabili: bambini sotto i cinque anni, donne incinte/in allattamento, vedove, orfani, malati, anziani e disabili”. Ciò nonostante, l’inconcepibile danno umano causato da tali sanzioni viene regolarmente liquidato come la conseguenza non intenzionale di una politica ben intenzionata[1]. Ammettiamo per un istante che sia vero. Dovremmo aver imparato. Eppure, anche oggi il mondo vede la guerra e anche oggi l’occidente risponde ripercorrendo sempre i soliti sentieri che indicano la pace e conducono alla morte. 

war museum perspective army
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L’occidente è in crisi, non trova risposte e soluzioni per porre fine a questa guerra e così, in attesa che il conflitto armato autonomamente rientri, gioca una partita a scacchi a tentativi, muovendo armi e sanzioni, come se fosse sicuro di avere un numero illimitato dì vite (non sue) a disposizione.

Ogni giorno la guerra viene vista come l’unica via. E probabilmente lo è, in un mondo già armato fino ai denti per combattere. In un mondo che per prevenire le guerre dedica miliardi di euro dei suoi fondi all’acquisto di dotazione militare e basa le sue relazioni internazionali sulle dinamiche belliche. È quasi una lettura naturale, il conflitto, in un mondo costruito su alleanze militari in espansione. Ogni giorno si confonde la scelta della pace per una scelta di passività o di neutralità disinteressata, ma in un mondo costruito ed allevato su misura per combattere le guerre, la scelta della pace è tutt’altro. Scegliere la pace non significa scegliere di guardare alla guerra da lontano, ma smontare la guerra nelle ragioni che l’hanno costruita e negli strumenti che la alimentano. No alla guerra, di oggi e di domani, non significa restiamo a guardare, ma significa adoperiamoci per la pace. Significa scegliere di smontare il sistema che vede nella guerra e nelle armi la scelta più naturale e contestualmente di ripensare all’intera struttura geopolitica mondiale. È difficile oggi adoperarsi per la pace in una guerra già in corso, non ci sono soluzioni semplici. Il conflitto è iniziato, le persone stanno morendo. Nel sistema in cui viviamo, scegliere di non alimentare il conflitto è complesso tanto quanto interromperlo se la prima tessera del domino è già caduta sulle altre. Serve un impegno forte per innescare un processo di de-escalation militare, un impegno che prediliga gli interventi umanitari, medici, di protezione, di tutela e che punti alla moltiplicazione degli spazi e delle possibilità di negoziazione e di incontro, un impegno concreto per interrompere l’ultimo conflitto in una storia di guerre senza fine che è ora di riscrivere mettendo in discussione l’attuale ordine mondiale per crearne uno nuovo che si fondi, finalmente, sulla pace. 


[1] Joy Gordon, The Enduring Lessons of the Iraq Sanctions, In: 294 (Spring 2020), Middle East Research and Information Project: Critical Coverage of the Middle East Since 1971.

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