La lingua italiana offre diverse parole per descrivere l’esclusione dalla società e l’isolamento. Parlando di persone con disabilità si inizia però a parlare di istituzionalizzazione, una parola che esprime, invece, l’internamento una persona in un luogo fisico all’interno del quale non potrà più uscire. E’ difficile comprendere il concetto di segregazione, tuttavia lo si può inserire in diversi settori: ad esempio in ambito penale, quando viene limitata la libertà personale di un pregiudicato; oppure in ambito razziale, con la ghettizzazione. Nel mondo della disabilità concetti come segregazione, allontanamento, maltrattamenti, diventano nuovi e al tempo stesso scottanti, pericolosi.
Siamo tutti d’accordo sull’illegittimità di tali azioni sugli esseri umani, in questo caso sui più indifesi, ma allora perché vengono reiterati nel corso degli anni, lasciandoli passare come attività all’ordine del giorno? In Italia sono 13.200 i presidi residenziali e semiresidenziali che erogano al loro interno servizi socio-sanitari e/o socio-sanitari, il 70% degli ospiti sono persone con disabilità, anziani autosufficienti e non autosufficienti, adulti con disabilità motoria o psichica. Nel 78% dei casi gli stessi ospiti affermano di essere all’interno di strutture che sono ben lontane dal riprodurre l’ambiente familiare e accogliente, ma, al contrario, la maggior parte delle strutture residenziali per la non autosufficienza ricordano ospedali, centri di clausura, contenitori enormi con muri bianchi e profondi all’interno dei quali è molto facile perdersi e non ritrovare più la propria identità.
Secondo lo studio dei dati presentati dai Carabinieri del Reparto N.A.S., nel periodo di tempo tra il 2014 e il 2016 sono stati effettuati più di 6000 controlli nei servizi socio-sanitari, socio-assistenziali e all’interno di importanti RSA. Dai dati emersi, sono state segnalate 1600 infrazioni e più di 180 persone sono state giudicate da autorità competenti. Tra le infrazioni, che noi chiameremo in realtà violenze, vi troviamo abusi sessuali, contenzione di farmaci scaduti, abusi della professione, maltrattamenti, violenza fisica e verbale ed isolamento coatto verso i più fragili. E’ interessante poiché in tutti questi documenti ufficiali la parola segregazione non viene mai pronunciata, e né tanto meno vi sono riferimenti espliciti eppure, la si può leggere fra le righe di quelle che sono e che sono state le pratiche di cura e di sostegno che inquadrano la struttura dei presidi residenziali.
“La segregazione non è un vestito che puoi togliere e mettere, ma ti rimane addosso sempre, attraverso gli odori, i ricordi, i luoghi, le paure, i sogni: restano nella pelle”.
Ci viene raccontato così dalle stesse vittime della segregazione, i pazienti psichiatrici e gli anziani nelle case di cura, affermando che ci si rende conto di aver vissuto un’esperienza di segregazione soltanto quando essa non è più la tua routine. Ti svegli la mattina in un luogo che ti hanno detto essere casa tua, con altri ospiti che ti hanno detto essere la tua famiglia e con delle persone che ti hanno detto si sarebbero prese cura di te, e tu, allora, scambi il silenzio per il rispetto, scambi la pioggia per una giornata di sole, scambi il digiuno per un’espiazione di colpa, e scambi le botte per un gesto d’amore.
Ma se con segregazione intendiamo una serie di pratiche che separano la vita di gruppo di persone da altre, sulla base dell’idea che ci siano esseri umani con i quali non è semplice la convivenza, queste riflessioni diventano ancora più difficili da affrontare. La disabilità spaventa, diciamocelo, crea distanze laddove vengono raccontate favole d’inclusione ed unione; ancor di più spaventa la disabilità psichica, quella del pensiero e della comunicazione. Per tale motivo, molte volte, alle persone risulta più semplice provare compassione per tali difficoltà piuttosto che adoperarsi e mettersi alla pari dell’altro. Da anni è stato adoperato un modello sociale di disabilità che afferma che è la società stessa a disabilitare, con le sue barriere architettoniche, comportamentali, normative, vieta l’accesso e la piena inclusione nella società ai soggetti con disabilità. Tuttavia, oltre al contesto incide anche il tipo di menomazione che rende più faticoso i processi di autodeterminazione e effettiva partecipazione.
Segregazione è una nozione politica che mette alla luce rapporti sociali di dominio: presuppone che, da un lato, ci sia il soggetto segregato e dall’altro il soggetto segregante, e soprattutto un diffuso, e tacito, consenso a queste stesse pratiche. E’ una nozione che sfida il senso comune secondo cui, per determinate categorie di persone a rischio (e pericolose), vi siano dei luoghi fatti apposta e che le pratiche di separazione debbano rientrare nell’ordine delle cose. Eppure, la recente normativa dei LEA, la legge Dopo di Noi, la legge UNI 2016, la vasta valigetta delle normative dei servizi sociali, promuove un’ampia gamma di interventi e forme di assistenza volte alla domiciliaretà, al non separarsi mai dal proprio nucleo familiare, come se fosse chiaro già da anni che all’interno di quei luoghi tutto avviene tranne che un’azione di cura. La risposta segregante va dunque letta alla luce del persistere di modelli, poteri ed interessi culturali e politici, ma è anche l’esito di una mancanza di alternative concrete o meglio, l’indice della difficoltà di far crollare, nel senso comune, un modello medico, sociale e politico che vede nella segregazione l’unica risposta più efficace e soprattutto normale alla presa in cura della disabilità.
“Vivendo in un paese della campagna toscana, l’unica soluzione possibile per l’accudimento e la presa in carica di entrambi i miei figli disabili, sembrava essere una struttura residenziale, anche se distante dalla nostra casa dell’epoca. Nel tempo l’istituto si rivelò una pessima soluzione: le dimensioni e le regole si rivelarono quelle di una prigione; la struttura ospitava più di 100 persone con età e disabilità diverse tra loro, e i miei figli vennero sistemai in una sorta di corsia d’ospedale con camere, mensa e bagni. Sembrava di essere ad Alcatraz, con la differenza che almeno i prigionieri avevano bagni privati e una scelta sul menù. Ai miei figli vennero tolti i pupazzetti e i bagni erano in comune, senza le porte, fu un problema per loro perché gli causarono gravi problemi intestinali risolti con la somministrazione di un clistere quotidiano. Da allora iniziarono i problemi comportamentali: il primo iniziò ad automutilarsi mentre il fratello più piccolo divenne sempre più aggressivo. Decisi di trasferirli in due comunità alloggio dove avevo lavorato personalmente e le cose finalmente sembravano andare per il verso giusto, fino a quando però gli operatori non furono mandati via per un avanzamento della loro carriera: da quel momento in poi ci fu un turn-over di operatori sociali interminabile che si concluse con l’accorpamento di entrambe le comunità per mancanza di figure professionali che potessero restare nelle strutture. Ma non fu questa la cosa peggiore: l’attenzione individuale venne a mancare e i casi più gravi furono inviati in ospedale. Non vennero più svolte attività sportive, di giardinaggio, di arte, tutte quelle attività che tenevano occupati le giornate degli ospiti della comunità e accendevano le loro passioni. Quando feci presente che le rette non erano adeguate per il servizio che veniva offerto, mi risposero invocando la sostenibilità: in realtà lo sviluppo sostenibile, significa invece che nessuno andava lasciato indietro, cosa che con i miei figli e con gli altri ospiti della comunità è stata fatta, lasciandoli condannati ad una vita di segregazione.” (Donata Vivanti, presidentessa della FISH Toscana – Federazione Italiana Superamento Handicap).
Napoli, 24 anni, laureanda in Servizio Sociale. Teatro, musica, cinema, bud's e diritti umani.