Vi era chi, sfuggendo alla sua proverbiale modestia, lo aveva battezzato “Adorno del Giambellino”, ma lui adorava dipingersi come un “filosofo ignorante, studente per tutta la vita”. Eppure, come avviene per chi è allergico a quelle striminzite ed avare definizioni da manuale, mille altri altisonanti epiteti, diecimila superbi appellativi non sarebbero riusciti ad imbrigliare in una sola, mingherlina e zoppicante parola, la poliedrica personalità del “cantattore” italiano per eccellenza: Giorgio Gaber, o per i minimalisti, Signor G.
Del resto, lui “sapeva di non sapere”, perché la cultura non deve vestirsi di disturbanti sovrastrutture elitarie, di inutili fronzoli che rimandano ad una borghese, troppo borghese “spocchiosità”. Al contrario. La cultura non è il noioso fondamento di un’ideologia, ma una semplice, elementare macchina fotografica, che immortala la camaleontica realtà che ci circonda, denudandola impudicamente nei suoi aspetti più reconditi e scabrosi. Perché è innegabile che “le canzoni ideologiche sono brutte” – come affermava in un’intervista nel 1973 – e l’unico efficace antidoto ad esse non è altro che la spontanea materialità delle piccole cose, disertrice di ogni enfatica retorica.
D’altronde, sai che noia sfogliare le lettere fatiscenti di un libro di letteratura? A meno che la letteratura stessa non funga da macroscopica lente d’ingrandimento per scandagliare la nostra meravigliosa realtà. Del resto, “quali tempi sono questi, quando discorrere d’alberi è quasi un delitto?”, ci si domanda nell’introduzione a “Dialogo tra un impegnato e un non so”, prendendo in prestito quel “palloso”, ma (in fondo) intelligente Bertolt Brecht.
La verità è che si dipana un’inestricabile, incommensurabile differenza tra un intellettuale ed un saggio: il primo lavora solo di meningi, disgiungendo mente e cuore, isolandoli uno dall’altro; trascura il corpo, lo guarda con quella schizzinosa aria saccente e giudicante; il secondo, invece, naviga negli onirici oceani dell’utopia, ausculta il cuore, cullandosi in un’oculatissima ingenuità. Chissà il Signor G. a quale delle due categorie apparteneva.
“Certe volte mi chiedo perché non me ne resto più tranquillo, perché non mi metto a scrivere cosette rasserenanti, magari gioiose. Poi mi guardo intorno, vedo che ci stiamo abituando tutti al grigiore, alla piattezza, alla rassegnazione, e mi accorgo che il mio compito, il mio lavoro, è quello di dire le cose che gli altri non dicono. Le cose che voi giornalisti non avete più il coraggio di scrivere.”
Perché chi si immerge nell’ovattata dimensione dell’utopia incenerisce l’agghiacciante muro dell’indifferenza che permea ogni cosa, rifugge all’istante l’appiattimento incolore di chi persevera nel parlare sempre degli stessi argomenti, che più che un parlare somiglia ad un belare, è refrattario verso colui che appartiene al logoro e massificante conformismo, che
“s’allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune
che vive di parole da conversazione.
Di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
Il giorno esplode la sua festa
che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando”
Perché chi insegue perpetuamente il sublime orizzonte della libertà, ricalcando le orme della miglior prosa di Louis-Ferdinand Céline, non può che trovarsi “dall’altra parte del cancello”, dove si intravede la sagoma di “un uomo matto […] un uomo solo, abbandonato, dimenticato, dietro le sbarre sempre chiuse di un cancello”; non può che darsela a gambe di fronte al trionfo volgare del dio Consumo, alter ego del dio Ingranaggio, che muove giorni, economia e poteri, che inietta un annichilente germe che fa “desiderare il desiderabile, consumare, essere uguale alla massa”, ripudiando anche la più flebile scintilla di un’accesa ribellione.
Ebbene, il Signor G. assorbe l’insegnamento di Pasolini che nei suoi “Scritti corsari” diceva che
«l’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, a cui “deve” obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo».
Scritti corsari, Pier Paolo Pasolini
Il culto ossessivo del consumismo ottunde anche il pensiero più turbolento, rendendolo mangime per “polli d’allevamento”, “innamorati dei colori accesi e delle grandi autostrade solitarie, dove si possono inventare le Americhe più straordinarie”, ineluttabilmente ciechi innanzi alla “pagliuzza nell’occhio dell’umanità” di eredità marcusiana. Eppure, “se abbiamo già sperimentato quanto possa fare male una dittatura militare, non sappiamo ancora quanto possa fare male la dittatura della stupidità”.
E, invece, questa, fino ad allora, fantomatica, immaginaria “dittatura della stupidità” ha trovato marchiana realizzazione nei “ruggenti” anni ’20 del 2000, epoca in cui dilaga incontrastata la pornografia dell’opinionismo, in cui si è impossessati dal demonio del proclamare le proprie idee con la prepotenza tipica di chi non ha nemmeno un po’ la pazienza di fermarsi ad ascoltare l’altro. E guai se si ha l’ardire di utilizzare un linguaggio più forbito: si rischia di passare per “professoroni”, se non si vomitano slogan preconfezionati, frasi per accaparrarsi il consenso comune, ché solo così per il popolo sei un “giusto”.
Sicché, l’Adorno del Giambellino ancora una volta aveva ragione, quando discuteva della mancanza del senso collettivo, foriera di un subdolo ed occulto autoritarismo, che educa all’obbedienza più sommessa, che si sollazza in nome di un esasperato egocentrismo. Perché la libertà non corrisponde a quella di matrice hobbesiana, secondo la quale la vera essenza dell’uomo non è altro che un reiterato e cronico sovrastare l’altro, obbedendo all’unico dettame dello stato di natura. No. La “libertà è partecipazione”, e rintraccia la sua superficie riflettente solo nella democrazia.
Eppure, nonostante l’immanente vaticinio del Signor G., affiora una briciola di speranza, l’alba di un nuovo umanesimo, un accennato schiudersi verso un ideale che può ancora essere realizzato, affidando alle nuove generazioni la chiave per la realizzazione di quest’utopia tanto bramata, tanto vagheggiata:
“Non insegnate ai bambini
non insegnate la vostra morale
è così stanca e malata
potrebbe far male
forse una grave imprudenza
è lasciarli in balia di una falsa coscienza.
Non elogiate il pensiero
che è sempre più raro
non indicate per loro
una via conosciuta
ma se proprio volete
insegnate soltanto la magia della vita”
“Dove esistono una voglia, un amore, una passione, lì ci sono anch’io”.
Buon compleanno, Signor G.!