“Stupefatti” è il podcast che racconta i “fatti stupefacenti” di Barbara Bonvicini e Riccardo Giorgio Frega. Un contenuto che si propone di parlare di sostanze stupefacenti in maniera laica e scientifica, con l’obiettivo di spezzare il tabù proibizionista; e lo fa informando e al tempo stesso intrattenendo l’ascoltatore, delineando come occorra superare lo stigma sulle sostanze a partire dal modo in cui se ne discute.
In un panorama culturale dove regna la disinformazione antiscientifica e asservita a logiche di potere, che ledono in maniera smisurata il bene collettivo, l’importanza di questo contenuto risulta, dunque, vitale.
Come vi presentereste ai nostri lettori?
Riccardo: Sono un divulgatore ed un attivista, inoltre, mi occupo di nuove tecnologie e sostanze stupefacenti. Ho incontrato Barbara qualche anno fa, con la quale abbiamo condiviso un lungo percorso politico; poi ci siamo specializzati nella divulgazione antiproibizionista.
La mia storia professionale mi ha portato per anni a vivere negli Stati Uniti ed a lavorare nel mondo della cannabis legale; ho partecipato, tra l’altro, alle istanze che hanno portato lì alla legalizzazione della cannabis ad uso ricreativo.
Dopo aver incontrato Barbara, abbiamo realizzato un podcast dal nome “Stupefatti”, che racconta fatti “stupefacenti”. Il podcast è lo strumento che ci ha permesso di raccontare un modo diverso di affrontare il tema delle sostanze stupefacenti, dal momento che di queste, in Italia, si parla poco ed in maniera fuorviante.
In questo paese, urge spezzare il tabù proibizionista, responsabile di un atavico e generazionale lavaggio del cervello che ha tratteggiato i contorni dell’ideologia secondo la quale le sostanze stupefacenti sono il male. Di conseguenza, secondo tale narrativa, chi assume sostanze lo fa per colmare un vuoto esistenziale. E, sebbene la medicina sconfessi questa credenza, non vi è un dialogo laico sul tema.
Barbara: Sono una dirigente in Radicali italiani ed ho, ormai, all’attivo nella mia militanza circa 9 anni di studio sulle politiche antiproibizioniste, non solo italiane, ma anche estere. Inoltre, svolgo un lavoro divulgativo e di comparazione con le best practices mondiali che seguono il fenomeno del consumo delle sostanze. Queste ultime provano ad invertire la tendenza al fallimento del proibizionismo, che è ex se un metodo fallito.
Del resto, la repressione non ha fatto nient’altro che aumentare la violenza; lo spaccio illegale, inoltre, ha abbassato i costi delle sostanze e non le ha tolte dal mercato. Per di più, nella mia carriera politica ho diretto e coordinato, fin dall’inizio, una proposta di legge di iniziativa popolare regionale al fine della regolamentazione della cannabis terapeutica, essendo la Lombardia nel 2015 priva di una legge a tal riguardo.
La legalizzazione è avvenuta definitivamente nel 2018; al contempo, nel 2016, sono diventata coordinatrice di “Legalizziamo”, ossia la proposta di legge di iniziativa popolare, di livello nazionale che, al momento, ha portato ad un disegno di legge depositato alla Camera. Durante questo periodo, ho collaborato con l’Associazione Luca Coscioni, scrivendo un libro intitolato “La cannabis fa bene alla politica”.
La collaborazione con la Coscioni mi ha portato a seguire direttamente la “Rete Italiana di Riduzione del Danno (ITARDD), un insieme di operatori – dalle ASL agli operatori sociali – che si occupano della salute dei consumatori e della riduzione degli effetti lesivi grazie al consumo delle sostanze.
Inoltre, nel 2018, ho seguito direttamente l’introduzione della riduzione del danno nei LEA, i Livelli Essenziali di Assistenza nella sanità: in tal modo, la riduzione del danno è entrata a far parte del panel di offerte obbligatorie del servizio sanitario nazionale.
Proprio da quel punto ho iniziato ad avvedermi del fatto che il proibizionismo era causa di un vero e proprio danno sociale: aveva come immediate conseguenze la crescita della criminalità organizzata, ma soprattutto arrecava un danno ai giovani, principali destinatari del messaggio proibizionista riassumibile con la frase “Via la droga a tutti i costi”.
Ma il “via la droga a tutti i costi” reca con sé una grande bugia criminale: che le droghe sarebbero tutte uguali.
Riccardo ha detto bene: ci sono delle sostanze legalizzate i cui rischi sono esposti lapalissianamente. Per esempio, sui pacchetti di sigarette l’elenco di tali rischi è scritto a carattere cubitale.
Ebbene, ciò non avviene per le sostanze illegali, per le quali i pericoli si rivelano doppi. Si pensi solo alle immense quantità detenute dagli spacciatori, alla scarsa sicurezza delle sostanze ed infine, all’ignoranza sul loro utilizzo.
Da queste problematiche nasce il podcast “Stupefatti”: un metodo giovane per arrivare ai giovani, essendo loro i primi destinatari di un messaggio lesivo ed erroneo nei confronti delle sostanze. Secondo noi, dunque, era necessario uno show leggero, seppur serio e, soprattutto, non stigmatizzante nei confronti dei consumatori, che soprattutto portasse il lavoro quotidiano ed il messaggio delle unità di strada di riduzione del danno – che purtroppo si trovano soltanto nelle grandi città – fino alle persone che abitano nelle periferie e nei piccoli paesi i quali, anche grazie a noi, sono riusciti ad apprendere le basi del consumo delle sostanze. Per cui, una definizione di quello che facciamo sarebbe: divulgazione su come sarebbe il mondo se le sostanze fossero legali.
La proposta referendaria “Cannabis Legale” è stata un successo travolgente, ma gli organi di stampa ne parlano poco e, spesso, anche male. Come spiegate questo servizio pubblico così scadente nel fornire una corretta informazione sulle sostanze?
Riccardo: Il tema è complesso. Su Radio Radicale, ad esempio, il grande e compianto giornalista ed icona radicale Massimo Bordin ha condotto, per anni, una striscia quotidiana di rassegna stampa che si chiamava “Stampa e Regime” e, secondo me, queste due parole riassumono perfettamente il problema.
La stampa italiana è uno strumento di regime. È noto che nella classifica sulla libertà di stampa, stilata da “Reporter Senza Frontiere”, l’Italia si trovi spesso in posizioni scandalosamente basse, ad esempio dopo il Burkina Faso o l’Angola, ed è, abbondantemente, ultima in Europa. Tuttavia, il problema dell’informazione ha scaturigini molto lontane.
In particolare, riguardo alle sostanze stupefacenti sussiste un evidente tabù. La stampa italiana non è libera di affrontare questa tematica in modo laico ed informativo: per esempio, in merito al rave tenutosi a Valentano, taluni giornalisti di Repubblica hanno pubblicato articoli basandosi sull’unica fonte dei commenti trovati su gruppi Facebook, senza informarsi sul campo, come imporrebbe la loro deontologia professionale.
Invece, sulle sostanze stupefacenti si assiste addirittura ad un ostracismo, perché il problema nasce dalla politica: le sostanze stupefacenti sono un argomento accentrante, che viene utilizzato da determinate forze politiche per polarizzare il discorso, consapevoli di poter far leva su una larga fetta dell’elettorato – questo perché la politica cerca il consenso, non cerca il buon governo – e l’elettorato proibizionista e conservatore è affascinato da un certo tipo di narrative ipocritamente retrograde. Manca del tutto la volontà di fare informazione corretta e pulita su un argomento attraverso gli organi di stampa, dal momento che i giornalisti non hanno la penna libera.
Il problema sarebbe semplice, se ci fossero da un lato la Meloni e Salvini – conservatori e, quindi, proibizionisti – e il resto dello spettro politico progressista, aperto e antiproibizionista. In realtà, purtroppo, non è così: Calenda non si esprime, il Pd, a dispetto delle apparenze, spesso è molto più proibizionista sulle sostanze. Perché questo accade? Perché è un tema intrinsecamente molto complesso. Proprio per questo sono necessarie voci indipendenti che abbiano una penna libera.
Sussistendo un’evidente differenza tra la depenalizzazione e la legalizzazione vera e propria della cannabis, fino a che punto ci si può spingere quando si parla di legalizzazione? Bisogna limitarsi alla semplice coltivazione domestica della marijuana o, al contrario, potrebbe anche intendersi la vendita in luoghi appositi (tabaccherie ecc.)?
Barbara: Con la parola depenalizzazione deve intendersi l’espunzione della fattispecie penale dalla normativa, ma ciò non implica l’esclusione delle sanzioni amministrative. Questo per aver chiaro il quadro.
La legalizzazione è, indubbiamente, un passo avanti rispetto ad una risposta soltanto penale. Per quanto riguarda l’Italia, il consumo e il possesso di piccole quantità sono depenalizzate e rientrano nella fattispecie dell’art. 75 del Testo Unico sugli stupefacenti (D.P.R. 309/1990), pur rimanendo penalmente sanzionata la condotta della coltivazione e dell’acquisto. La depenalizzazione, in questo caso, quantomeno eviterebbe il carcere, sia per chi consuma una quantità definita per uso personale, sia per chi coltiva effettivamente minime quantità.
Per esempio, la situazione del Portogallo aggiunge alla depenalizzazione il fatto che tutti i reati correlati alla droga non vengano sottoposti all’attenzione di un tribunale penale, ma di una sezione speciale, composta da esperti per comprendere quale sia il problema, arrivando ad una concreta fuoriuscita del tema dal circuito penale. Ad esempio, se si viene colti in flagrante con tre grammi di cannabis, si finisce innanzi ad una commissione che deve valutare il caso, stabilendo seriamente se esso richieda una risposta consistente in un percorso di aiuto, come nell’ipotesi di un problema legato al consumo di eroina.
Con la legalizzazione, al contrario, si regolamenterebbe il fenomeno. Per di più, essendo la cannabis una delle sostanze meno nocive, il controllo, la tutela del consumatore, la salute andrebbero a sanarsi con la legalizzazione, come si è verificato nei paesi che l’hanno già fatto. Alle sostanze pesanti si applicherebbero i criteri, qualitativi e valutativi, che adesso non vengono applicati, anche in merito alla qualità. In tal modo anche l’LSD, la MDMA potrebbero essere di alta qualità.
Sono state fatte varie ipotesi di legalizzazione: la prima sulla cocaina è stata proposta da un senatore colombiano, Ivàn Marulanda del partito dei Verdi, che ha introdotto la legalizzazione ed ha previsto che nella legge sia tipizzato il concetto di consumo, distinguendolo in problematico e non problematico. La regolamentazione consisterebbe nel fatto che ci si reca da un counselor, che fornisce una consulenza sul consumo e, grazie al controllo medico, ammesso che il consumo non sia problematico, si ha a disposizione un grammo al mese: una quantità davvero esigua, alla portata di tante persone anche in Italia.
L’attuale normativa non si occupa del consumo non problematico, che concerne almeno il 90% dei consumatori. Tant’è vero che il consumo problematico da cocaina si stima riguardi appena l’8,5% dei consumatori: una percentuale davvero irrisoria rispetto a quello che viene raccontato e, soprattutto, rispetto a quello che potrebbe ulteriormente ridursi, se facessimo un briciolo di informazione e consulenza.
Riccardo: In questo caso, si arriva a discutere di libertà individuali e diritti umani, perché, a fronte di una piccolissima percentuale della popolazione che sviluppa un consumo problematico, stiamo tenendo in piedi un sistema oppressivo, di stampo proibizionista, che non funziona. E questo sistema ha fornito la prova lampante che, nel mondo, il fenomeno delle sostanze stupefacenti esiste ed ha dimostrato che il traffico di sostanze stupefacenti non è reprimibile. Questo significa, di converso, alimentare il traffico e le organizzazioni criminali che, nel caso italiano, fanno una fortuna con la cocaina.
Si è, poi, portati a pensare che il problema del narcotraffico riguardi solo i paesi più poveri o il Sud America, con i suoi “narcos”, ma il traffico internazionale è gestito dalla ‘ndrangheta e le nostre organizzazioni criminali traggono da questo commercio illegale gran parte dei loro fondi, poi usati per penetrare in ogni ambito della società.
Nei paesi di produzione e quindi, ad esempio, la Colombia o il Sud America in generale, il narcotraffico è diventato sinonimo di violenza brutale, con fette intere di popolazione che vengono schiavizzate ed aggredite. In altri termini, ogni consumatore di cocaina oggi deve essere consapevole del fatto che la botta che si tira è lorda di sangue. Questo, perché le nostre società non sono in grado di affrontare questo problema con un minimo di laicità ed obiettività; soprattutto non esiste, neanche da un punto di vista clinico, la distinzione fra droghe leggere e droghe pesanti.
La nota rivista scientifica inglese “The Lancet” pubblica una classifica delle sostanze più dannose per l’organismo: alcol e tabacco sfiorano i primi posti, superando di gran lunga la cannabis e molte altre sostanze che vengono proibite. È lampante che, quindi, l’alcol vada classificato come droga pesante, adottando il criterio di tale distinzione.
È legittimo, quindi, questo interrogativo: per quale motivo in questo paese si regolamenta l’alcol in maniera virtuosa e ciò non avviene per l’LSD, l’MDMA, al contrario di quanto si è verificato negli Stati Uniti?
Negli USA, negli Stati in cui è stata legalizzata la cannabis, vi è stato un miglioramento dello scenario sociale. Inoltre, non è fortuito che la nazione dove si consuma meno cannabis pro capite in Europa sia l’Olanda: tutte queste cose dovrebbero essere in grado di convincere anche gli scettici ad aprire un dibattito. Questo perché, se regolamentassimo le sostanze e venisse creato un impianto regolatorio che andasse a tutela del cittadino, con il controllo della qualità e della sostanza, le potremmo legalizzare, regolamentare e controllare tutte. Questo tema si collega al sovraffollamento delle carceri e risolveremmo per sempre il problema delle mafie. E quindi la questione non è più sul perché dover legalizzare, ma, al contrario, verte sulla ricerca di un motivo vero e razionale per cui non dovremmo legalizzarle.
Nel vostro podcast avete parlato del prof. Carl Hart, quale esempio del superamento della distinzione tra droghe leggere e pesanti. Volete parlarci di questo importante divulgatore scientifico e della Transform Drug Policy Foundation?
Barbara: La Transform Drug Policy Foundation non ha fatto un semplice report, ma una vera e propria guida che è diventata la base da cui molti Stati sono partiti per le proprie politiche di legalizzazione e questo ente, ormai, è riconosciuto a livello internazionale.
Sulle droghe pesanti ha redatto un’altra “guida” dal titolo “How to regulate stimulants” in cui si parla di tutte le sostante stimolanti, come l’ecstasy e la cocaina, insieme a molte altre. In esso si porta all’attenzione il caso dell’esistenza di sostanze stimolanti liberalizzate. Inoltre, si arriva ad affermare che la liberalizzazione non implica la depenalizzazione sic et simpliciter, ma porta anche alla tolleranza stessa dell’uso di queste sostanze, fino all’obiettivo di un consumo libero, senza alcun vincolo legislativo.
Potremmo citare, tra gli stimolanti, il caffè, il tè o la taurina. Quest’ultima è citata quale esempio di sostanza stimolante liberalizzata, che può essere acquistata anche dai minori. La legalizzazione, dunque, ha questa sottile differenza: le leggi possono vietare la vendita ad alcune fasce della popolazione, la proposta del report è verso il superamento della legislazione sulle sostanze stimolanti. E la sua lettura è stata d’ispirazione per il podcast, tanto che gli abbiamo dedicato 4 episodi monografici. Quindi abbiamo già il metodo, ci è stata indicata la strada maestra, ma la parola spetta ai politici.
Infatti, la proposta fatta in Colombia dal senatore Ivàn Marulanda sulla cocaina ci ha esaltati proprio perché la Colombia esporta il 75% della cocaina illegale nel mondo. E se il primo afflato di speranza è arrivato da lì, resto perplessa sulla scarsa attenzione della politica in Italia, che è il primo acquirente di cocaina colombiana, alla notizia, ma noi ne seguiremo il percorso istituzionale in Colombia. L’articolo 1 della proposta di Marulanda si intitola “Difesa della sovranità nazionale”, questo perché la riconversione dell’economia illegale colombiana può rivelarsi fondamentale per la svolta economica del paese sudamericano e per il riappropriarsi della loro sovranità nazionale e popolare.
Vi lancio una provocazione: un professore di diritto penale, a Napoli, affermò che una sostanza è “legalizzata”, o meglio “libera”, quando essa è disponibile ed è facile procurarsela, in Italia; dunque, ci sarebbe una vera e propria “liberalizzazione di fatto” se mi passate il termine, cosa ne pensate?
Barbara: Le droghe sono già libere, ti faccio un esempio: se, ora, io mi spostassi da dove mi trovo potrei facilmente procurarmi qualsiasi cosa in meno di un quarto d’ora. Per cui, sì, le droghe sono libere, ma se fossero legalizzate non ci sarebbe l’attuale tabù nell’affrontarne il discorso, oltre alle conseguenze penali.
Riccardo: Secondo me, non è neanche una provocazione, ma un’analisi molto acuta ed intelligente sull’attuale stato delle cose. Infatti, un altro argomento di cui parlare è l’approccio proibizionista in sé. Nei fatti, dare tutta la colpa alla singola sostanza, come se essa fosse la causa di ogni male, impedisce di fare un discorso più attinente alla realtà e maggiormente omnicomprensivo.
E questo mi permette di collegarmi a Carl Hart di cui sopra, un neuroscienziato tra i più famosi ed accreditati nella sua materia e direttore del Dipartimento di Neuroscienze della Columbia University. Egli ha fatto discutere il mondo, non solo accademico, con un libro di grande interesse dal titolo “Drug Use for Grown-Ups”, nel quale ha ammesso di fare uso ricreativo dell’eroina da anni. In questo libro egli afferma, quasi provocatoriamente, che è molto più facile gestire il consumo di eroina che dirigere il proprio dipartimento. Questa “confessione” ha creato un grande clamore in ambito tanto internazionale che accademico, ma quello che si rivela essere davvero interessante del libro di Carl Hart è proprio il modo in cui racconta la sua storia. Egli, infatti, è un afroamericano, nato in un ghetto, ed ha visto con i propri occhi come l’eroina abbia rovinato il tessuto sociale entro cui è cresciuto. Ora che vive in un ambiente elitario, ha potuto osservare come il consumo delle stesse sostanze agisca in modo profondamente diverso in un contesto sociale del tutto differente.
Dunque, è questo un tema nevralgico: le sostanze stupefacenti non hanno lo stesso effetto ovunque. Se vengono assunte da una fascia di popolazione colta ed educata, con un alto tenore di vita, allora ecco che l’utilizzo è molto più semplice da controllare che non in delle sacche di povertà, spesso ghettizzate, dove il consumo di droghe è capace di fare grandissimi danni.
E qui si collega un altro tema: l’educazione dei giovani, perché se la società fosse in grado di educare in maniera aperta, la sostanza avrebbe un effetto diverso. Negli Stati Uniti, lì dove la cannabis è stata legalizzata, il gettito fiscale generato va a finanziare importanti iniziative sociali per le giovani generazioni.
Quindi, il problema non è la cocaina o l’eroina in quanto tale, ma l’uso che viene fatto di queste sostanze in una data classe sociale. Urge, dunque, affrancare i giovani senza futuro dai ghetti nostrani e dalle organizzazioni criminali seguendo lo stesso metodo che li porta, alla fine, a diventare vittime delle sostanze.
Allora, la vera rivoluzione non è proibire la sostanza, ma dare a tutti pari opportunità sociali e questo si fa anche legalizzando tutte le sostanze.
Ed invece, parlando dei casi problematici, servirebbe un migliore percorso di cura e reinserimento?
Riccardo: Io e Barbara non veniamo dal mondo degli operatori sociali, eppure per noi la soddisfazione più grande è stato l’apprezzamento dei nostri contenuti da parte delle persone impegnate nelle realtà di assistenza alle dipendenze. Quest’attività, anche parlando con loro, può essere declinata anche in maniera proibizionista, cioè propagandando l’astinenza, ma questa non è mai la soluzione al problema, lo è, invece, la connessione umana, il contatto e l’empatia.
Barbara: Infatti, nella primissima puntata, parlammo proprio di questo fattore umano, parlando di un mondo dove consumatori e non consumatori potessero vivere assieme. Ce ne sono tantissimi già diffusi e legalizzati, per questo non può esistere un mondo senza droghe, altrimenti Bush sarebbe riuscito a sradicarle. Dunque, è ipocrita proibire gli alteratori di coscienza, perché la droga esiste, dobbiamo consumarla per libera scelta, ma poterlo fare in sicurezza è un diritto di tutti.