Mimmo Lucano è stato condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di reclusione ma, senza la pubblicazione della motivazione, col solo dispositivo, nemmeno gli avvocati conoscono il ragionamento logico-giuridico che ha portato alla decisione. Peraltro, fino al passaggio in giudicato, è ancora da considerarsi non colpevole. Eppure, si urla al “questa non è giustizia”. Addirittura, ci si presta a formulare ipotesi sul calcolo matematico seguito dai giudici di prime cure per arrivare alla quantificazione della pena, congetturando sulla possibile configurazione del medesimo disegno criminoso, attraverso una minuziosa disamina della disciplina penalistica sul concorso formale e materiale di reati degna dello studente medio di giurisprudenza al terzo anno di università. Ancora, si pubblicano articoli e titoletti sensazionalistici che pongono in relazione la vicenda dell’ex sindaco di Riace con altri casi di cronaca nera, inneggiando alla bontà delle sue azioni nell’impegno sociale ed umanitario da lui perseguito, a fronte di quell’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che, in tutto questo, è anche caduta.
Sì, perché la condanna è giunta per una serie di reati contro la pubblica amministrazione, la pubblica fede e il patrimonio, quali: associazione per delinquere finalizzata a commettere un numero indeterminato di delitti, falso in atto pubblico e in certificato, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, abuso d’ufficio e peculato. A ben vedere, è tutt’altro il piano di rilevanza.
Bisognerà attendere 90 giorni per il deposito della motivazione, che non saremmo noi a studiare per la redazione dell’atto d’appello. Potremmo costruirci un’opinione, certo, ma c’è un abisso rispetto allo speculare su un intero procedimento penale delle cui risultanze probatorie non abbiamo piena contezza.
Di contro, il caso di Mimmo Lucano potrebbe essere lo spunto per una riflessione più ampia.
Stiamo assistendo ad un inesorabile e crescente scollamento tra ciò che le persone ritengono giusto e ciò che viene deciso nelle aule: l’opinione pubblica condanna, mentre il tribunale assolve e viceversa.
Uno degli esempi maggiormente noti nella storia contemporanea risale al controverso processo delle catene a carico di Vincenzo Muccioli, ricostruito in maniera brillante nella docuserie netflix “SanPa: luci e tenebre di San Patrignano”. Una distanza spesso acuita dalla fama mediatica di determinati personaggi, che conduce quasi a ritenere che la giustizia, per essere tale, debba essere quella della gente. Non più le norme vigenti in materia, così come emanate dal legislatore in un dato momento storico, ma il bisogno di placare gli animi, di saziare gli appetiti, fermando la bufera social e l’indignazione popolare.
Dilaga, ormai, una generale e sempre più veemente sfiducia verso il sistema giudiziario: da un lato, sicuramente alimentata da una mancata conoscenza tecnica della materia; dall’altro, spinta da una diversa percezione del senso del giusto che non è quasi mai in linea con le decisioni prese dai tecnici del settore. È certo che qualcosa debba cambiare, ma può mai mutare sempre in base ai sentimentalismi, l’attenzione o la sensibilità del momento? Perché se è così, allora che senso ha il diritto?
Viene meno la ragione dell’esistenza stessa di un ordinamento giuridico che ci permetta di vivere in società, avendo un sistema di regole avulso dal mero istinto di sopravvivenza a cui tutti cederemmo in sua assenza. Viene meno quel patto sociale di cui parlava Thomas Hobbes, secondo cui ognuno di noi rinuncia ad una porzione di libertà personale per concederne all’altro in egual misura, così da garantirsi una convivenza civica tranquilla e sicura nel rispetto di un corpo normativo superiore al singolo che, seppur punendolo per le sue trasgressioni, lo protegge dal richiamo dell’autoconservazione e della sopraffazione.
Siamo schiavi delle leggi per poter essere liberi, per dirla con le parole di Cicerone.
Ma se le persone – tra la politica che è corrotta, la giustizia che non funziona, l’informazione che è falsata – smettono di credere nell’insieme delle istituzioni su cui si fonda proprio questo patto sociale, allora non abbiamo fallito lo stesso? Cos’è la giustizia?
Sembra che, negli ultimi tempi, ci si polarizzi per qualsiasi argomento: o sei pro o sei contro, o sostieni o boicotti, o assolvi o pretendi la ghigliottina. E non va mica bene.
Di nuovo, cos’è la giustizia? Dov’è finita la complessità?
Prat. Avv. iscritta presso il Foro di Napoli Nord, con esperienza maturata in ambito penalistico.
Autrice del podcast "Basta che sia penale" e membro della Redazione de Il Controverso.
Scrive di politica, di diritti e di cultura, perché il cinema e la letteratura arrivano lì dove nient'altro riesce.