Luigi Pirandello e Marta Abba: un amore fatto solo di parole

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Marta Abba: Pirandello la vide per la prima volta il 25.2.1925 al Teatro Odescalchi, alla prima di “Nostra Dea”, commedia del suo caro amico Massimo Bontempelli, per la quale Marta Abba fu scritturata come prima attrice.

Il Maestro, come era definito Pirandello, ne fu profondamente colpito: Marta era di una bellezza esuberante, di una “prepotente fisicità”, come disse di lei un’altra attrice pirandelliana: Paola Borboni.

Quando apparve trafelata sul palcoscenico quel 25 febbraio del 1925, mentre gli attori concludevano la prova, si ebbe l’intensa e forte sensazione che si stava al cospetto di un’attrice versatile.

In “Nostra Dea” il personaggio femminile da lei interpretato muta carattere e cuore a seconda dell’abito che indossa.

Marta era capace di recitare il repertorio pirandelliano, assumendo ecletticamente tutte le possibili maschere: da quella tragica a quella inquieta, a quella piena di contraddizioni, a quella sferzante, ironica, ilare. È “come se avesse un brillante sulla fronte capace di vedere più lontano degli altri”, così diceva di lei Pirandello.

“E’ giovanissima e di meravigliosa bellezza. Capelli fulvi, ricciuti. Occhi verdi, lunghi, grandi e lucenti, che ora, nella passione, s’intorbidano come acqua di lago; ora, nella serenità, si fermano a guardare limpidi e dolci come un’alba lunare; ora, nella tristezza, hanno l’opacità dolente della turchese. La bocca ha spesso un atteggiamento doloroso, come se la vita le desse una sdegnosa amarezza; ma se ride, ha subito una grazia luminosa, che sembra rischiari e avvivi ogni cosa”.

Questa è la didascalia di “Quando si è qualcuno”, commedia scritta per lei, come ci ricorda Leonardo Sciascia in “Alfabeto pirandelliano”.

È stata per Pirandello la “musa viva”, in contrapposizione alla “musa morta”, la di lui moglie Antonietta Portulano, internata in un manicomio. Aveva accusato Pirandello, tormentata dal morbo della gelosia, addirittura di incesto per la figliola Lietta.

Come noto, il Maestro ebbe, sul piano familiare, una vita difficile e piena di delusioni; solo nell’Arte e nel Teatro dispiegò il suo talento magnifico, sino a diventare il più importante e prestigioso drammaturgo europeo.

Ma fu Marta Abba la sua ispiratrice, la donna per la quale Pirandello ebbe anche un sentimento fortissimo di amore, non corrisposto.

In oltre 10 anni Marta non fu mai sfiorata da Pirandello: aveva il doppio dei suoi anni ed era più giovane dei suoi figli. Il Maestro aveva altissimo il senso del pudore e della vergogna: giammai avrebbe insidiato Marta. Anche se una notte sul lago di Como, mentre tutti gli attori dormivano, si narra che il Maestro ebbe l’ardire di presentarsi alla camera di albergo di Marta. Ma lei non aprì la porta e diede la buonanotte al Maestro rammentandogli la sua età ed il suo ruolo. È ricordata dagli studiosi come l’atroce notte del lago di Como (La musa ritrosa, Carlo Ferrucci).

Pirandello, scrive Federico Vittore Nardelli (Vita segreta di Pirandello), faceva della fedeltà un valore costitutivo della sua esistenza, incomprensibile ed anacronistica per il mondo del teatro, già allora leggero e di facili costumi.

Comincia, dunque, un lungo epistolario di ben oltre 500 lettere: bellissime, d’incanto, piene d’amore, di intensa passione (Lettere a Marta Abba. Il Meridiano, a cura di Benito Ortolani).

Marta Abba non solo è la Musa del suo teatro – sono dedicate a Lei “Diana e la Tuda”, “L’amica delle mogli”, “Quando si è qualcuno “, “I Giganti della Montagna” – ma su di lei si fonda il progetto di un Teatro di Stato che Pirandello aveva coltivato, pur senza esito.

Allestirà una sua compagnia che girerà tutto il mondo e Marta Abba ne diventerà la regina.

Per il rispetto del Maestro, Marta attaccava fuori la porta dei suoi camerini anziché il proprio nome quello del personaggio che recitava in quel momento.

Nelle lettere, Pirandello pretende di conoscere tutto di Marta, come trascorre la giornata, se lui alberga nei pensieri di lei. Esige la descrizione del suo tempo, vuole vedere le cose che tocca Marta, starle vicino. Ma nella pura e casta immaginazione della sua fervida mente.

Marta, rispetto alle altre attrici ed attori, si cala nel personaggio che esce dalla fantasia di Pirandello sino ad immedesimarsi nel ruolo. E come se l’immaginazione avesse messo al mondo una creatura vera, come se sopraggiungesse la realtà alla prospettiva del pensiero: questa era l’arte di Marta Abba che fece perdutamente innamorare il Maestro.

Marta è unica, perché più di ogni altro attore rende possibile il miracolo pirandelliano, descritto da Giovanni Macchia ne “Pirandello o la stanza della tortura”.  Il personaggio che germoglia dalla fantasia del Maestro avrà una sua forza autonoma, una sua volontà che si distacca dal suo autore. Essa non può realizzarsi in un romanzo, con mezzi narrativi, ma sul palcoscenico, ove quella “essenza plastica” prende corpo, si rende visibile anche agli altri agli spettatori. Lo spazio teatrale diverrà il luogo di un magico rito.

Come è scritto in “Sei personaggi in cerca d’autore”:

“Chi ha la ventura di nascere personaggio vivo può ridersi anche della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna non ha neanche bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi”.

Il teatro di Pirandello fa vivere i suoi personaggi in una continua reincarnazione che suppone un’eternità: ciò avviene sul palcoscenico. Nel suo teatro c’è il processo alla psiche malata, si risvegliano gli incubi, le ossessioni, la crudeltà, i dolori, la mancanza di certezza del nostro tempo. Si avverte la scomposizione, la scissione, il senso della personalità alterata, inafferrabile.

Marta si rivela ogni giorno di più come l’interprete ideale del suo scopritore, capace di soddisfare meglio di chiunque altro le aspettative che questi ripone negli attori da lui diretti.

Ma Pirandello era innamoratissimo di Marta è così le scrive:

“Ma io ti voglio lieta e serena, Marta mia, senza pensieri e senza malinconie e le mie lettere non te ne debbono dare, anche se ti dico che sto male, perché il male di cui soffro tu devi pensare che sia sempre un bene per me e che assai peggio sarebbe se non dovessi soffrirlo più.”

(Nettuno, 9.07.1928).

“[…] Speriamo che la sorte, una sola volta, almeno prima che  io chiuda gli occhi per sempre, mi voglia essere benigna e Ti riconduca a me, Marta perché io possa riavere una ragione di vivere che ora mi manca del tutto… Mi pare che tutte le cose non abbiano più senso… Aspetto come un assetato una tua parola.”

(Berlino 14.03.1929)

“[…] ora senza Te, per quanto mi sforzo, per quanto cerchi di resistere, sento che muoio, perché non so più che farmene della vita, in questa atroce solitudine non ha più senso per me vivere, né valore, né scopo; il senso, il valore, lo scopo della mia vita eri Tu, nell’udire il suono della tua voce a me vicina, nel vedere il cielo nei tuoi occhi e la luce nel tuo sguardo, la luce che mi illuminava lo spirito. Ora tutto è morto e spento, dentro ed intorno a me. Questa è la terribile verità.”

(Berlino, 20.03.1929)

“[…] Parlare di te vuol dire parlare ancora della vita, quando già sono morto…Tu la devi vivere senza di me, la tua vita e deve essere bella piena di gioie e gloriosa; la vita che un’anima come la tua, un cuore come il tuo, si meritano; e quando l’avrai piena colma di gioia e luminosa penserai un po’ a me, Marta, a me che non sarò più, a me che t’amai tanto, tanto tanto, fino a morirne per essermi costretto a non parlartene più. Il tuo povero Maestro.”

(Berlino, 1.04.1929).

In “Quando si è qualcuno” Pirandello ha l’assoluta contezza di come l’amore possa superare e sconfiggere anche il tempo:

“Tu non l’hai compreso questo ritegno in me del pudore d’esser vecchio, per te giovine. E questa cosa atroce che ai vecchi avviene, tu non la sai: uno specchio – scoprirsi d’improvviso – e la desolazione di vedersi che uccide ogni volta lo stupore di non ricordarsene più – e la vergogna dentro, la vergogna allora, come d’una oscenità, di sentirsi, con quell’aspetto di vecchio, il cuore ancora giovine e caldo. Eh, tu sei viva e giovine, creatura mia; ecco, ancora così viva, che già sei mutata – puoi mutare tu, momento per momento, e io no, io non più”.

Ma fu un amore fatto solo di parole.

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Biagio Riccio

Avvocato, dal 1993 esercito la professione forense nel tribunale e nel Distretto di Corte d’Appello di Napoli. Avvocato civilista dall’anno 2008, patrocinante in Cassazione. Fondatore dell'Associazione Favor Debitoris.

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