Per un osservatore esterno i recenti sviluppi del conflitto israelo-palestinese potrebbero sembrare l’ultimo capitolo di un’infinita storia dai dettagli indefiniti. La vicenda è spesso semplificata, e per di più, in maniera piuttosto grossolana: due gruppi etnici e religiosi differenti, restii ad ogni forma di compromesso, rivendicano la stessa terra. Lo scoppio di un nuovo, violento conflitto tra Israele e i militanti islamici di Hamas, che controllano la Striscia di Gaza, non sorprende nessuno: dopo tutto, è come se i media ripetessero incessantemente la stessa notizia da anni.
Questa volta, però, è stato diverso. Infatti, l’ultimo confronto tra Israele e Hamas risaliva al 2014, quando l’esercito israeliano bombardò Gaza in risposta all’uccisione di tre teenager ebrei, probabilmente rapiti da uomini appartenenti al gruppo estremista. Il costo umano delle ostilità fu inevitabilmente alto.
Per comprendere le radici del conflitto, è necessario compiere un breve excursus.
A cavallo tra Ottocento e Novecento, il movimento sionista aveva convinto ebrei da tutto il mondo a migrare verso la terra promessa, la Palestina. Con la caduta dell’Impero Ottomano al termine della prima guerra mondiale, un mandato britannico fu istituito nei territori palestinesi. La fondazione dello Stato di Israele avvenne nel 1948, in seguito alla divisione della Palestina britannica in due Stati, uno ebreo e l’altro arabo, con la città di Gerusalemme che sarebbe rimasta indipendente ed internazionale. L’accordo fu accettato dagli ebrei, che proclamarono la nascita dello Stato di Israele, ma rifiutato dai palestinesi e dagli Stati arabi confinanti, che dichiararono guerra a Israele. Il neonato Stato ebraico vinse facilmente la guerra, spingendosi ben oltre i confini inizialmente assegnati dal piano ONU ed annettendo anche la sezione occidentale di Gerusalemme. Gaza, che si trovò separata dal resto della Palestina, fu occupata dall’Egitto, mentre la Giordania occupò l’area a ovest del fiume Giordano (detta perciò Cisgiordania). Lo status quo rimaneva così molto fragile e, nel 1967, la Lega Araba aprì nuove ostilità con Israele. In seguito, la cosiddetta “guerra dei sei giorni” portò Israele ad occupare l’intera Palestina, la penisola egiziana del Sinai e le alture di Golan in Siria. La decisiva vittoria ebraica pose fine alla guerra ventennale tra Israele e i suoi vicini arabi. Nel 1978, l’accordo di Camp David restituì il Sinai all’Egitto e, progressivamente, gli altri Stati confinanti assunsero atteggiamenti meno ostili nei confronti di Israele. Ciò lasciò il Governo israeliano con il compito di gestire centinaia di migliaia di palestinesi nei territori occupati. Spinti da motivi politici, economici e religiosi, i coloni ebrei cominciarono a migrare in gran numero verso le aree occupate, originariamente destinate alla creazione dello Stato di Palestina. Con il passare del tempo, la migrazione di massa ha costituito insediamenti considerati illegali dal diritto internazionale, ma a lungo sovvenzionati dal Governo israeliano. Questi insediamenti, seppur illegittimi, sono cresciuti a tal punto da diventare vere e proprie città israeliane all’interno del territorio palestinese, generando rabbia e frustrazione nella popolazione araba. Gli accordi di Oslo del 1993, stipulati dal Primo Ministro israeliano Rabin e dal Presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Arafat, divisero i territori occupati in tre zone: la zona A, governata autonomamente dalla nascente Autorità Palestinese; la zona B, governata dall’Autorità Palestinese, ma con servizi di sicurezza attribuiti a Israele; la zona C, sotto il pieno controllo di Israele, eccezion fatta per i cittadini palestinesi. Gli accordi non ottennero il risultato sperato a causa dell’opposizione delle frange estremiste. Rabin fu assassinato nel 1995 da uno studente israeliano di estrema destra, mentre Hamas, dopo aver vinto le elezioni legislative palestinesi del 2006, prese con la forza il controllo della Striscia di Gaza. Nel frattempo, essendo stata Gaza sottoposta a un durissimo embargo da parte di Israele, la crescita degli insediamenti illegali in Cisgiordania è aumentata esponenzialmente.
I bombardamenti delle forze di sicurezza israeliane hanno cagionato la morte di centinaia di civili a Gaza, tra i quali molti bambini. Una dozzina di cittadini israeliani sono stati uccisi dai razzi lanciati da Hamas, 26 palestinesi sono rimasti vittime delle proteste in Cisgiordania. La popolazione civile, stordita da nazionalismo e indottrinamento religioso, è in balia delle perverse macchinazioni di chi la governa. Eppure, la lunga guerra tra Israele e i militanti islamici di Hamas non è giocata ad armi pari. Nei recenti giorni la Striscia di Gaza, colpita dal fuoco nemico, dalla pandemia e dalla profonda crisi economica causata dall’embargo, ha vissuto anche una colossale crisi umanitaria. Le vittime di questo eterno conflitto sono state, per ovvi motivi, principalmente civili palestinesi: Israele può contare su uno degli eserciti più attrezzati e tecnologicamente avanzati al mondo. Iron Dome (cupola di ferro in italiano), infatti, è un sistema antimissile impiegato dalle forze di difesa israeliane al fine di intercettare e distruggere la quasi totalità dei razzi a breve gittata provenienti dalle aree circostanti.
Gaza, invece, non possiede alcuna cupola di ferro. I bombardamenti israeliani hanno distrutto abitazioni, negozi e perfino gli uffici dell’Associated Press. Secondo dichiarazioni (non indipendentemente verificate) rilasciate dall’esercito israeliano, l’edificio in cui i giornalisti americani lavoravano avrebbe ospitato militanti di Hamas. Inoltre, Israele gode dell’inamovibile sostegno dell’Occidente. Al pari dei suoi predecessori, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è limitato a ribadire che, pur rimanendo la violenza inaccettabile, Israele abbia il diritto di difendersi. Prima di lui, Donald Trump aveva apertamente abbracciato le posizioni radicali e nazionaliste dell’attuale Primo Ministro Benjamin Netanyahu, riconoscendo l’annessione israeliana delle alture di Golan, tuttora occupate illegalmente, e spostando l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, capitale non riconosciuta dalla comunità internazionale. A ciò si aggiungono le tensioni sociali esistenti in Cisgiordania e all’interno dello stesso Stato di Israele, la cui popolazione è composta al 20% da cittadini di origine araba.
Il casus belli del recente conflitto risiede probabilmente nell’imminente sentenza della Corte Suprema Israeliana sullo sfratto di residenti palestinesi dal quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme, situato nella sezione orientale della città, a favore di coloni israeliani. Il termine “sfratto” risulta incredibilmente riduttivo dal momento che la polizia, spesso collusa con i coloni, si è servita della forza per trascinare intere famiglie fuori dalle proprie case. È quindi necessario ricordare che la Commissione ONU per i Diritti Umani ha evidenziato che queste espulsioni violerebbero le obbligazioni internazionali assunte da Israele.
Allo stesso modo, le aggressioni di Hamas, organizzazione terroristica resasi responsabile di numerosi attacchi in Israele, non sono in alcun modo giustificabili. Contraria a qualsiasi tipo di mediazione, Hamas diffida anche da Fatah, il partito laico e moderato attualmente alla guida dell’Autorità Palestinese. In un conflitto che dura ormai da 73 anni, è sempre più difficile prendere parti.
Tuttavia, occorre sottolineare come l’ago della bilancia penda totalmente a favore di Israele. Visto l’enorme squilibrio di potere, spetterebbe al Governo israeliano la responsabilità di calibrare la propria risposta a eventi di questo genere, affinché inutili sofferenze possano essere risparmiate alla popolazione civile. Invece, in un clima politico incerto e polarizzante, Israele ha affrontato ben quattro elezioni parlamentari negli ultimi due anni. L’impossibilità di formare un governo stabile e la crescente radicalizzazione della destra israeliana, capeggiata da Netanyahu, rende questo obiettivo sempre più difficile da raggiungere.