“Eh, ma non si può più dire nulla”; “siamo nel bel mezzo di una dittatura del politically correct”; “la libertà di espressione del pensiero è minata”. Solo alcune delle assidue e ricorrentissime frasi che abitano il linguaggio di presunti “comici” (che di propriamente comico, in verità, non hanno proprio nulla), di posticci “giornalisti”, di sedicenti “politici”, tutti schierati in difesa della preziosissima ed indispensabile “libertà di manifestazione del pensiero”.
Ebbene, come si fa ad essere contro chi scomoda non solo il fulcro nodale di tutte le libertà, ma anche un principio tutelato dalla nostra Carta costituzionale?
A quest’interrogativo si potrebbe rispondere invocando un inflazionatissimo Voltaire qualunque, che darebbe la propria vita affinché il suo nemico possa beneficiare della fondamentale libertà di esprimere un’opinione non condivisa; ma altri (i più radical-chic, i “comunisti col rolex”, i ricchi pseudo-socialisti) fanno appello al più raffinato paradosso della tolleranza di Karl Popper, secondo il quale una società intollerante agli intolleranti finisce per essere la più tollerante possibile.
Eppure, questo pantagruelico encomio, questo strenuo trinceramento della libertà di pensiero viene patrocinato (guarda un po’ il caso) da chi imbastisce interi discorsi sul soporifero leit motiv di un linguaggio verbale intriso di pungente violenza, odio gratuito; sulla scorta di un ritornello monocorde, sempre uguale a sé stesso, che risuona all’incirca così:
- io, esponente qualunque di quel partito politico appropriatosi indebitamente di 49 milioni di euro ex abrupto
- io, esponente di quello stesso coacervo (più cervo, che coa) politico, imbellettatomi con un papillon di tutto rispetto
- io, fantoccio da due soldi, “arruolato” nell’esercito della stupidità di Canale 5, che forse suscito ilarità solo nei personaggi di cui sopra
“mi asserraglio dietro questa (ormai narcotica) libertà, per discriminare ad libitum tutte le minoranze che nel corso dei secoli non hanno mai beneficiato di alcuna tutela. Che importa se le ferisco? Poi se qualcuno mi è ostile, mi faccio scudo, arroccandomi dietro lo spettro della dittatura del politically correct”.
Ma per questi signori dalla dubbia intelligenza sorge una minuscola, esigua problematica: le minoranze si sono svegliate. Dopo due millenni, queste minoranze non ne possono più di un infelice umorismo che ricalca sempre le stesse, annose tematiche: l’omo-transessualità come ilare condizione da schernire, la donna bella e stupida da deridere, perché tanto solo di un oggetto si tratta, i neri, buoni solo a maneggiare lavori pesanti.
Ed è anche un po’ da disperati sprovveduti far costante riferimento alla tanto famigerata dittatura del politically correct. Il politicamente corretto si ricopre di pantomimici orpelli, come la raggiunta uguaglianza di genere, l’inutile rivendicazione di diritti che, ad onor del vero, non sono mai stati riconosciuti, la minaccia accanita alla libertà di pensiero, dal momento che si è al cospetto di un “nemico” che adombra la possibilità stessa di esprimere un messaggio dal contenuto “scomodo”.
Se le parole sono importanti, vanno utilizzate a ragion veduta: quel messaggio non è solo scomodo, ma letteralmente offensivo; quel messaggio non fa ridere, ma sottolinea la condizione di una minoranza boicottata; quel messaggio è veicolato in un’unitaria direzione: quella di continuare a discriminare in maniera indisturbata. Perché no, ad un insulto non si risponde con una risata, a differenza di quanto vogliano far credere certi personaggi “comici”.
Perché aggrapparsi alla cosiddetta “cultura del piagnisteo” (dalla definizione di un certo Robert Hughes) porta con sé l’automatico corollario di qualificare chi si schiera a favore delle minoranze stesse come un severissimo giustizialista, un draconiano tranchant che non ride di fronte a nulla.
Ma con elevata probabilità i soggetti elencati prima ignorano che in un regime dittatoriale, il diritto a pronunciare macroscopiche idiozie sarebbe stato abrogato dalla notte dei tempi; e invece no. Tutti loro sono insigniti del privilegio di dire ciò che più desiderano, anche quando è fuori da ogni empirica ragione.
È altrettanto plausibile che gli stessi, dietro l’anemica schermatura della libertà di pensiero, in realtà non abbiano mai fronteggiato un dibattito degno di questo nome. Perché il dibattito altro non è se non l’abbandono della loro congenita cecità selettiva, il calarsi nei panni altrui per comprendere l’altrui punto di vista, senza, per questo, necessariamente condividerlo. Tant’è vero che quando se ne prospetta l’occasione attraverso un cantante che da un palcoscenico grida all’approvazione di un disegno di legge osteggiato sempre dagli stessi personaggi, piovono ingiurie, a dir poco, parossistiche.
Perché qui non si osanna alcuna “cancel culture”, non si sta giustificando chi pretende assurdamente di rivoluzionare il gioco degli scacchi perché concede la prima mossa al bianco ed è, quindi, razzista, o chi ravvisa in “Via col vento” alcuni pregiudizi etnici e razziali che erano, disgraziatamente, dati per assodati nella società americana. No. Al contrario.
Semplicemente si raccolgono i cahiers de doléances di quelli che proprio non ce la fanno più ad esser sempre al centro di un’attenzione sessista, maschilista, razzista, tradizionalista fino alla nausea; di quelli che non tollerano più di essere sbeffeggiati, punzecchiati, canzonati solo per i loro gusti o preferenze sessuali; di quelli che rivendicano (ed era anche ora) il diritto a non essere più insultati.
Perché la dittatura del politicamente corretto non è altro che un mito
“che sacrifica il libero pensiero per uniformarlo all’eccessiva sensibilità verso il genere, la razza e l’orientamento sessuale è il più vecchio e certificato dei miti politici contemporanei […]. Lo scopo di questo mito è di minare ogni sforzo di cambiamento, presentandolo come un sabotaggio, un attacco a una società che è fondamentalmente sana e non ha bisogno di essere riformata.”
Nesrine Malik. We need new stories
Ed è evidentissimo non solo che siamo tra le spire di una società per la quale urge il più immediato dei cambiamenti, ma soprattutto è lapalissiano che chi agghinda le proprie orazioni riesumando frasi voltairiane, non darebbe nemmeno una falange perché sia espressa un’opinione che diverge dalla propria.