Come sappiamo già tutti, l’epidemia da Coronavirus ha stravolto il mondo intero: sia in termini di vite che dal punto di vista economico. Infatti, se dalla crisi del 2008 abbiamo assaggiato quello che poteva essere un discriminante divario sociale tra le classi più avvantaggiate della nostra società e le meno fortunate, il Coronavirus ha aperto una voragine assai più profonda e logorante.
Tra attività che si sono dovute fermare ed altre che hanno dovuto definitivamente chiudere, ritardi sui pagamenti, ritardi sui fondi sociali stanziati e perplessità sulla cassa integrazione, l’Italia che abbiamo conosciuto fino a questo momento sembra star vivendo uno dei suoi più grandi incubi. Le conseguenze immediate di natura economica riportate dal virus hanno varie origini, come i cambiamenti nei comportamenti delle persone, la diversità delle forme contrattuali lavorative che non sempre comportano tutele nei confronti dei lavoratori stessi – apparato che impedisce loro di ricevere quei famosi interventi economici a fronte dell’emergenza, e infine i limiti imposti dal governo per “contenere” la forza di contagio con i numerosi dpcm.
Qualche mese fa qualcuno cantava vittoria, pensavamo di avercela fatta. E, invece, che cosa è successo poi? Qualcosa dev’esser evidentemente sfuggito dall’ingranaggio, e ora ci troviamo a fronteggiare la seconda ondata pandemica di Coronavirus, con numeri di positivi che straripano minuto dopo minuto.
Era estate, lo ricordo molto bene. Il vento tra i capelli e tra le mie stazioni preferite, RTL 102.5 che trasmetteva una di quelle hit estive che quando son le sette di sera e il sole è ancora caldo in cielo, non sembra neanche farti così tanto schifo. “Aumentano i contagi da coronavirus, soltanto 89 nella provincia di Milano“. Come se fosse ieri, lo ricordo perfettamente: da quasi nulla, ad 89. Che cosa è successo? Qualcosa dev’esser successo.
Settimane dopo la necessità di dover indossare la mascherina anche all’aperto, qualche giorno prima di ferragosto le discoteche hanno chiuso e i primi giorni di settembre, i contagi raggiungono i trecento complessivi in tutta la penisola. Che cos’è successo? Qualcosa dev’esser successo, per forza.
Possibile che nessuno abbia previsto un aumento di contagi con i rientri estivi? Possibile che, con i tanto luccicosi bonus vacanze proprio nessuno nessuno nessuno abbia messo in conto dei viaggi convalidati all’estero e dei successivi rientri in patria? Strano. Virologi, scienziati, laboratoristi, politici, l’Italia ha messo in campo i migliori. Ci rassicurano comunque, sono molto bravi nel farlo e d’altronde, si tratta di semplici rientri, tra non meno di qualche settimana passerà tutto e potremo ritornare alla vita che avevamo appena ripreso con tanta energia e malinconia.
Ma che cosa è successo, poi? I primi di Ottobre i contagi aumentano a dieci mila in tutta la penisola, poi dodici mila, poi quindici, poi venti e all’improvviso ci ritroviamo nuovamente in un’ imminente, ma soprattutto incontrollabile emergenza sanitaria. E, signori, tra emergenza sanitaria e incontrollabile, la parola che oggi fa più paura è incontrollabile. Non tanto per il significato del termine in sé, che fa traballare tra i più coraggiosi, quanto invece per la sua effettiva conseguenza: come può essere definita ancora incontrollabile una pandemia che ha tenuto alle strette per sei mesi un intero sistema sanitario nazionale? Che ha visti occupati i più esperti tra virologi e sociologi, economi per declamare le sorti del Paese? Ne concerne tutto questo una delusione così palpabile da scatenare rivolte in tutte le province.
Da Milano, Verona, Trieste, Padova, Roma, Napoli, Bari la rabbia è la bandiera. Corrono guerriglie, l’unico obiettivo è andare contro quel sistema che per mesi aveva promesso di proteggere i suoi cittadini, e per i mesi successivi dar loro una nuova strategia di vita. Il pericolo oramai non è più la malattia, ma quello che gli strascichi di una malattia possono comportare e tra questi, appunto, il down economico.
Imprenditori, ristoratori, liberi professionisti, artisti che a stento sono riusciti ad avere i sussidi del primo lockdown, ora sono inermi di fronte a queste nuove restrizioni. Le dichiarano assurde, inaccettabili, inapplicabili, non per il pericolo del contagio – perché il Coronavirus c’è, non possiamo né dobbiamo negare la sua esistenza e la sua pericolosità – , ma le risposte efficaci che il Governo avrebbe dovuto fornire in tutto questo tempo, forse, di quest’ultime potremmo negarne l’esistenza. Un tampone veloce, un risultato sicuro, un ospedale adeguato, una scadenza certa per la quarantena d’attesa, la differenza invalicabile tra sintomatico ed asintomatico, le loro modalità di contagio. Il crinale diventa molto fragile, si spacca a metà e, se da un lato ci sono coloro che forse, anche per questa volta potrebbero dire di farcela, dall’altra parte c’è chi ha già la consapevolezza ormai di non uscirne tutto intero. Insomma, dopo tutto: le misure di prevenzione ci sono state. Le mascherine, l’igienizzante, i controlli, il numero massimo di persone capienti in un locale, la prenotazione obbligatoria con il lascito dei recapiti per ogni evenienza. Perché chiudere di nuovo? Sono passati quattro mesi dall’estate, e nessuno tra i capi supremi è stato capace di trovare una risposta a tante di queste perplessità.
Passiamo tutta la vita a lavorare sodo, per assicurarci la realizzazione dei nostri sogni. Chi in giacca e cravatta, dietro la scrivania con con un computer, chi dietro un sipario. Chi tra scaffali di libri, commensali adornati, una casa famiglia. La verità è che l’Italia, forse, non è mai stata pronta per tante di queste nuove professioni e il divario economico che ha portato il coronavirus ne dà la certezza assoluta. E’ vero, non possiamo negarlo: molti tra i lavori sono inesorabilmente a nero, i contratti sono fasulli e molte volte neanche i pagamenti risultano effettuati nelle giuste tempistiche e somme, ergo risulta davvero complicato, in questi termini, permettere una risposta di sostegno per suddetti furbi imprenditori. Ma stacchiamo un attimo la spina dai classici luoghi comuni, poiché ritengo che per loro non ci sia più motivo d’esistere nel mercato, che ne sarà di tutti gli altri? Perché ce ne sono e anche tanti, parecchi.
Il Presidente del Consiglio promette loro altro sostentamento economico con un bonifico diretto al loro conto corrente. In piazza a Torino, invece, nello stesso attimo, c’è chi si appresta a spaccare le vetrine del negozio di Gucci che fattura l’anno oltre quattordici virgola cinque miliardi d’euro e il suo proprietario, il Gruppo Kering, ne evade uno virgola quattro – sempre mila, sempre l’anno. Chi tra le lacrime è costretto a chiudere un chioschetto di panini costruito con le proprie mani e i propri fondi, e chi dall’altra parte acquista l’ultimissimo cellulare dell’Apple, impiegando tra i mille e duecento, mille e trecento euro. Non fraintendetemi, ve ne prego, non mi diverto di certo nel fare i conti in tasca alla gente, ma credo che stiamo oramai tutti trascinandoci sempre di più in un buco nero così tossico di cui questi semplici esempi possono aiutarvi a comprenderne la pericolosità.
The Guardian, il quotidiano britannico, ci dice che durante la prima ondata di questa pandemia, il patrimonio dei miliardari è aumentato del 27.5%, raggiungendo addirittura un nuovo record. Con uno stipendio minimo italiano (8,84 euro l’ora), ci vorrebbero esattamente dodici mila novecento tredici anni di lavoro per guadagnare un miliardo di euro.
Sempre The Guardian afferma con prontezza il quesito : i miliardari dovrebbero esistere? La risposta, almeno la mia, suppongo sia sì. I miliardari dovrebbero esistere, dopotutto nessuno decide se nasci in una famiglia con i pomi d’ottone, ciò che dovrebbe cambiare sono le priorità. I miliardari esistono, certo, ma esiste anche quello spirito di coscienza che ci ricorda – dovrebbe ricordarci – ogni giorno di essere umani e di star vivendo uno dei momento più difficili del nostro secolo. E se è vero che la solidarietà popolare è quella che ci aiuta a sopravvivere più del contatto diretto con le Istituzioni, che la sovranità popolare, quella informale, faccia qualcosa, dica basta. Che possa cucire questa crepa profonda tra ricchi e poveri, tra indegni e benestanti, tra borghesi e semplici menestrelli di corte. Il coronavirus ci sta insegnando che la politica non esiste, è così tanto semplice smontarla, è così inefficace nel rispondere alla domanda. Il Coronavirus ci ha insegnato l’importanza dell’informazione, della sua essenzialità nelle prossime elezioni politiche: scegliamo bene chi vuole proteggerci. Il Coronavirus ci riporta indietro nel tempo, alle rivolte liberali e sociali, quando ai poteri statali si sovrapposero quelli popolari e magari, per tale motivo, potremmo sanare le crepe del valore umano.
Il Coronavirus, paradossalmente, ci sta dicendo che forse .. Forse, forse: siamo ancora in tempo.
Napoli, 24 anni, laureanda in Servizio Sociale. Teatro, musica, cinema, bud's e diritti umani.