Le contraddizioni di un burattinaio

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Storia di Vincenzo De Luca e del Covid che gli insegnò a fare figuracce

Il 26 gennaio 1955, sulla scorta delle orme del dettato costituzionale, Piero Calamandrei ribadì uno degli essenziali principi al quale doveva ispirarsi la scuola nell’esercizio delle proprie funzioni: la mobilità sociale. La scuola altro non è che la linfa vitale della Carta costituzionale, il più traboccante serbatoio di cultura, il polmone che respira e fa respirare democrazia, quel mastice che annoda uguaglianza civica e coesione, superba effige di unità, dal momento che «trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere».

Come un grido monitorio, una solenne esortazione, così oggi riecheggiano le parole dell’integerrimo costituzionalista. La scuola forgia l’anima di ciascun bambino con il superlativo conglomerato della conoscenza, spalanca orizzonti vividi, sprigiona il dolcissimo profumo della libertà.

Eppure vi è chi la scuola l’ha chiusa, ha serrato i suoi cancelli, trincerandosi dietro gli striminziti chiavistelli di una fantomatica “sicurezza”, aggrappandosi al martellante morbo della paura, che sgomina un’istruzione di per sé già agonizzante. Perché è necessario proteggersi, scongiurare in tutti i modi possibili e immaginabili il contagio da Covid 19, ma allo stesso tempo non si può castrare un settore già moribondo, come quello scolastico.

Ma in Campania, qualcuno proprio non lo capisce, o forse finge di non farlo. Quel qualcuno stesso che sembra idolatrare l’”arte” della commedia mediocre, tremendamente borghese, al cospetto di un pubblico che l’ha acclamato fino ad ora; perché non dovrebbe farlo più? Quel qualcuno a cui basta essere sotto le luci della ribalta, perché è essenziale solo obbedire ai propri impulsi narcisisticamente nauseabondi; ciò che si dice, ciò che si fa non conta. Quel qualcuno che gioca maldestramente a fare il dittatore, ma le cui ordinanze sono solo il riflesso di una bizzarra e ridicola vanità: leggendole, son tutte monche. Quel qualcuno che deve aver mangiato proprio male negli ultimi tempi, eppure è strano, perché è il presidente di una Regione che vanta una delle migliori cucine italiane. Quel qualcuno che devono aver tentato di avvelenare con una vodka liscia servita al banco di un bar, prima delle 21, o forse aveva chiesto un po’ di whisky e gli hanno rifilato del tè alla pesca (hanno lo stesso colore, guarda un po’). Quel qualcuno stesso, però, che nutre un incommensurabile amore per qualunque genere di mezzo pubblico, specialmente se in ritardo e stracolmo di persone. La sua è un’ammirazione talmente sentita che non vuole modificare assolutamente nulla; non sia mai che vengano inserite più corse! Poi come si fa a godere dello spettacolo di file chilometriche di esseri umani che si accalcano l’uno addosso all’altro per osare salire su un vagone della metro?

Per non parlare degli ospedali mai aperti. Esistono innumerevoli probabilità che questo qualcuno coltivi un’intima, ma mastodontica passione per i luoghi abitati da fantasmi, quelli totalmente vuoti, che attendono con fervore di essere inaugurati, magari per risollevare leggermente il morale a coloro i quali aspettano di trovare un lavoro da un bel po’ di tempo. Però, bisogna capirlo. Come si fa a rinunciare al piacere di camminare per corridoi vuoti, ad ambulatori così incorrotti da incutere patemi d’animo se solo ci si arrischia a sfiorarli, a pavimenti così puliti e lustrati da poter mangiare per terra? Del resto, così tanta efficienza e pulizia non potrebbero mai essere sprecate per curare persone, che a malapena riescono a respirare, che sono sull’orlo della vita e ad un passo dalla morte. È molto più esilarante assistere al teatro tragico di carovane di macchine che ingorgano i drive-in, tutte quante animate dalla flebile speranza di fare un tampone. Non è per niente paragonabile l’orgia di sghignazzi che si prova, comunicando gli esiti dei tamponi a distanza di cinque giorni, quando tutto va bene, o anche una settimana, talvolta dieci giorni. Bisogna prendersela con comodo, non sia mai che ci si stanchi, per carità. Anche perché, assumere personale che provveda a ciò è una soluzione troppo complessa, e soprattutto, come si fa ad abdicare alla sadica voluttà di recingere le persone in casa, a mo’ di arresti domiciliari, e farle soffrire tutte, estenuarle con petulanti dubbi riguardo alla loro positività o meno?

Ma no, in fondo è molto più comodo sillabare ordini che trafiggano l’economia, che la carbonizzino del tutto, è un equestre gioco da ragazzi adagiarsi nell’alveo di un titanico egocentrismo, che scopre la sua più brulicante espressione in ordinanze che hanno ancor meno senso dell’esistenza di alcuni esseri umani; per esempio, i no-mask.

Perché nessuno il cui cervello sia dotato di qualche neurone ha l’ardire di negare la letalità del virus, nessuno contravviene al sacrosanto obbligo di indossare la mascherina, ma è anche vero che deprivare i ragazzi dell’istruzione, costringendoli ad apprendere nozioni fondamentali attraverso il freddo schermo di un computer, imporre di chiudere bar e ristoranti ad orari ad libitum, come se il Covid-19 circolasse solo di notte, rimanere inerti a fronte della pantomima funerea della sanità, è la plastica rappresentazione dell’operato di un Mangiafuoco, che muove le sue marionette goffamente, e pian piano le incenerisce, facendole morire.

«La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante, che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da uno sciocco, piena di strepito e di furore, ma senza significato alcuno».

Macbeth, atto V, scena V, William Shakespeare
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