Nel corso della storia moderna l’America è stata definita un impero, in maniera tanto critica quanto encomiastica. Se dunque si volesse considerare Washington la Roma del terzo millennio, è necessario ricordare che un fattore universale accomuna gli imperi succedutisi nel corso della storia: essi sono in grado di sopravvivere, finché sono in guerra. La supremazia militare risulta, infatti, al netto di trattati e diplomazia, ancora il solo e vero metodo per esercitare un’influenza determinante nello scenario geopolitico. Gli Stati Uniti sono, a detta di molti americani, una nazione belligerante, nata da una rivoluzione, segnata dalla guerra civile, elevata al ruolo di potenza egemone dalle guerre mondiali. Dalla loro fondazione ad oggi, hanno totalizzato solamente 17 anni di pace complessivi.
Tuttavia, è necessario sottolineare come, a partire dal secondo dopo guerra, la stragrande maggioranza degli interventi militari statunitensi sono frutto della volontà di amministrazioni repubblicane. Con la sola eccezione delle guerre in Corea e Vietnam (quest’ultima sostenuta a lungo da entrambe le fazioni) il partito di Lincoln ha sempre mostrato una certa propensione a voler risolvere con la forza complessi problemi internazionali. Occorre inoltre specificare come i partiti Democratico e Repubblicano abbiano, da Franklin Delano Roosevelt in poi, scambiato posizione nello scacchiere politico. Questa trasformazione, completatasi soltanto a seguito della presidenza Kennedy, ha portato il partito Democratico ad appoggiare alcuni capisaldi di centrosinistra comuni ad ogni democrazia, inclusa la predisposizione alla diplomazia. In contrasto, il partito Repubblicano è divenuto il partito del sud conservatore. Non deve sorprendere che attualmente una grossa fetta della delegazione repubblicana al Congresso provenga proprio dal sud del paese, area fortemente intrisa di sentimento nazionalista e sproporzionatamente a favore della guerra. Bisogna quindi analizzare i motivi per cui i conservatori americani tendono ad essere “falchi” della politica estera.
Il primo è ideologico e trova le sue radici nell’eccezionalismo americano: l’idea secondo cui gli USA siano la prima nazione moderna, univocamente destinata a trasformare il mondo. L’eccezionalismo è stato così a lungo un elemento fondamentale della retorica politica di destra da non poter essere più messo in discussione. Scandalo tra i più conservatori causarono le parole di Andrew Cuomo, governatore dello stato di New York, per il quale l’America non sarebbe il miglior paese del mondo a causa delle enormi disuguaglianze sociali.
Dopo tutto l’America è la prima repubblica democratica, ha sconfitto fascismo e comunismo nello stesso secolo, ha messo il primo uomo sulla luna. Ciò ha ingenerato in parte dell’elettorato la convinzione, immediatamente rispecchiata dalle parole dei leader repubblicani, che gli States debbano difendere a tutti i costi i propri interessi strategici, poiché la riluttanza a ricorrere a mezzi bellici è sinonimo di debolezza. Dick Cheney, vicepresidente durante l’amministrazione Bush ed architetto della guerra in Iraq, enfatizzava l’importanza di un “nuovo secolo americano” e di un ruolo forte e preponderante di Washington nei rapporti tra le nazioni. John Bolton, ex Chief Strategist della Casa Bianca sotto Trump, è inamovibile sostenitore della necessità di un conflitto aperto con l’Iran e proprio Donald Trump, tra le altre cose, ha aumentato di circa il 50% la presenza di truppe in Afghanistan. E’ evidente che la base conservatrice statunitense non abbia problemi con il militarismo, nonostante i risultati disastrosi a livello internazionale, domestico e morale portati dalle recenti guerre in Medio Oriente.
Il secondo è politico. Gli Stati Uniti sono di gran lunga il paese con la più alta spesa militare. Tale spesa sembra lievitare particolarmente negli anni in cui la Casa Bianca è occupata da un repubblicano. Pur essendo in tempi di relativa pace, gli USA vantano un budget di 732 miliardi di dollari, somma pari al 4% del PIL e superiore a quanto speso dai precedenti dieci stati combinati. A confronto gli altri paesi NATO, spendono solo l’1% del loro PIL in difesa.
Fermo restando che, per via dello status di unica superpotenza mondiale, è naturale che gli USA abbiano un alto spending militare, è difficilmente comprensibile la ragione per cui, nonostante i profondi problemi che interessano il tessuto socio-economico della nazione, tanto denaro venga dirottato nel settore bellico. Essa è eminentemente politica: la destra repubblicana intende evitare di investire risorse in programmi sociali o stimoli economici reputati fallimentari. Di conseguenza la difesa militare appare un modo utile e sicuro di impiegare i soldi dei contribuenti, proiettando allo stesso tempo un’immagine di forza agli occhi della comunità internazionale.
Il terzo è economico. La supremazia militare USA permette ad Uncle Sam di intervenire tempestivamente in qualsiasi area del mondo a tutela dei propri affari. In questa chiave, ad esempio, può essere letta la Guerra del Golfo, oppure l’invasione di Panama, entrambe volute da George H.W. Bush al fine di combattere ex alleati ormai divenuti scomodi ed ingombranti. Lo smodato utilizzo dell’esercito da parte dei presidenti è infine permesso dalla debolezza del Congresso nell’esercizio dei propri poteri di guerra. In teoria, il 28esimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti sottopone ogni intervento bellico in paesi esteri all’approvazione del Senato a maggioranza assoluta. Tuttavia, nella prassi, l’eventualità del controllo congressuale sembra essere lasciata alla sola ipotesi di una formale dichiarazione di guerra, potendo così il Presidente ordinare unilateralmente azioni militari.
E’ doveroso precisare che i presidenti democratici non sono affatto estranei a queste pratiche, basti pensare al controverso sostegno di Obama alle Forze Democratiche Siriane che lottano contro Bashar al-Assad. Eventi che non smentiscono la predilezione del Partito Repubblicano per un militarismo ormai caratterizzante, dalla Siria alla Corea del Nord, dall’Afghanistan all’Iran, la presidenza Trump.