Le forze del (dis)ordine. Lo Stato di polizia nel 2020

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Agli albori degli anni ’60 del novecento, un intellettuale ancora anonimo e sconosciuto, seppur già 55enne, partorì una delle opere più polimorfe, caleidoscopiche e tortuose al comprendonio, che la letteratura mondiale abbia mai visto sul proprio palcoscenico: “Massa e potere”.

L’intellettuale in questione si chiamava Elias Canetti, vincitore del premio Nobel nel 1981, e il testo fu dato alle stampe solo dopo appena 38 anni dall’inizio della sua monumentale stesura.

Galoppando tra le sue pagine, si sgroviglia l’angosciante contemporaneità del concetto di potere. Cos’è il potere, se non una spina conficcata nelle carni di chi subisce sommessamente un comando? Cosa, se non un’imposizione fisica, corporea, tangibile, che ingenera in chi lo patisce, un assoggettamento totalizzante e spaurito? Il potere assume le inquietanti sembianze di una spina, perché vuole agire in profondità, fintantoché non viene posto in essere, aggirandosi tra le spire di un animo contrito, rassegnato.

Nel 2020, ben cinquant’anni dopo la pubblicazione del libro di cui sopra, l’effigie più fedele alla concezione di potere canettiana si materializza fin troppo spesso nel corpo di polizia.

È di pochi giorni fa la notizia, secondo la quale nello scenario di piazza Bellini, nel ventre del centro storico napoletano, alcuni agenti di polizia abbiano indisturbatamente intimidito sia giovani che adulti. La ragione per la quale nel territorio si siano addensate alcune volanti di polizia, un’auto dei carabinieri e una camionetta dell’esercito sarebbe da individuare in uno stringente controllo della famigerata “movida violenta”, a causa dell’emergenza Covid-19. Peccato che sembrava di essere al cospetto di una di quelle fotografie di respiro storico (magari in bianco e nero e, forse, esposte nelle sale di un museo), ritraenti i momenti che vanno ortodossamente celebrati dalla memoria. Spesso e volentieri, chissà perché, riproducono, come una sorta di leit motiv preferito, gli scontri dei forti contro i deboli, a sinistra quasi sempre la polizia, a destra i “rifiuti” della società. Solo che, in questo caso, i “rifiuti” si sono macchiati dell’esecrabile colpa di essersi divertiti, o forse di aver consumato delle birre dopo l’orario consentito, ma soprattutto di non aver con sé i documenti, per non tralasciare la leggerissima aggravante di essere attivisti. Ed una minima ribellione, un insignificante “no” alla richiesta di esibizione dei documenti è valso loro l’arresto.

Quantunque il nostro codice penale asseveri che permane l’obbligo di fornire le proprie generalità, se domandate da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni, tale norma non prescrive, al contrario, il dovere di presentare i propri documenti identificativi.

Per non discettare circa l’accaduto in America, a proposito dell’omicidio di George Floyd, foriero delle più spietate e giuste proteste.

L’abuso di potere, palpabile da qualunque angolatura si osservino queste vicende, è la spalla destra di ciò che si definisce, senza alcun’ombra di dubbio, “Stato di polizia”. Eppure, a guardar bene, l’etimologia della parola smentisce ogni riferimento ad un capillare controllo, ad una tentacolare asfissia da parte di coloro i quali pretendono di qualificarsi come “forze dell’ordine”. In teoria, “polizia” deriverebbe dal greco, πολιτεία (politèia), con l’accezione di “costituzione”; ad onor del vero, il reale significato oscilla tra “diritto alla cittadinanza”, “anima della città” o anche “corpo civico”.

Come si fa a dire ad Aristotele che la politèia adesso si è plasmata su un modello a mo’ di Panoptikon, di benthamiana memoria? Come fai a raccontare a Platone che oggi la politèia prospetta la stessa conturbante immagine dei teleschermi alla Orwell?

Eppure, i titoli di alcuna carta straccia difendono a spada tratta certi pubblici ufficiali, inchinandosi innanzi alla micrometrica osservanza di una legge che legittimi l’operato discusso.

Gli autori degli stessi, molto probabilmente, soggiacciono a ciò che il filosofo Giorgio Agamben chiama “ragion di sicurezza”, che nel contesto attuale, sempre più somigliante allo Stato di polizia, ha rimpiazzato in tutto e per tutto la “ragion di Stato”, baluardo, invece, dello Stato di diritto.

La ragion di sicurezza affonda le sue radici in un’ottica ben più raccapricciante, descritta eccezionalmente da Michel Foucault. Il pensatore francese, infatti, aderiva alla scuola di pensiero, in ragion della quale, affinché lo Stato possa esercitare una persecutoria ed estesissima sorveglianza sul popolo che lo abita, è conditio sine qua non che non argini né prevenga le catastrofi, al contrario appronti le condizioni che avallino il loro verificarsi. Ciò, con il granitico scopo di insinuare la morbosa sanguisuga della paura. E chi ha paura, ineluttabilmente, cerca chi può offrirgli sicurezza. 

Foucault rovesciò drasticamente la dottrina di Thomas Hobbes, secondo il quale, invece, sulla scorta del principio del bellum omnium contra omnes (guerra di tutti contro tutti) e dell’homo homini lupus, lo Stato diventa coriacea roccaforte che deve preservare da ogni minaccia, che deve confortare da ogni timore. Il contratto che destinava il potere al Sovrano, a capo dello Stato stesso, si ergeva sul barcollante fondamento della paura e rinveniva come ratio legittimante proprio la sicurezza, ottenuta solo grazie all’indotta abdicazione alla libertà.

«Quanto più arriviamo vicini al nostro ideale di sicurezza, tanto più onerosi e irritanti diventano i vincoli crescenti ma inevitabili imposti alle nostre libertà; mentre quanto più siamo vicini alla piena libertà senza vincoli, tanto più diventiamo insofferenti nei confronti del caos e dell’imprevedibilità di un mondo disorganizzato ‘fuori dal normale’, afflitto dai rischi che emergono, qualsiasi passo abbiamo il coraggio di prendere. In entrambi i casi, l’energia potenziale si trasforma nel suo equivalente di energia cinetica, e il pendolo inverte la sua direzione. Io credo che siamo attualmente testimoni di un cambiamento di questo tipo: sempre più persone stanno maturando la disponibilità a cedere un numero crescente di spazi di libertà per una crescita – vera o presunta, compiuta o solo promessa – del senso di sicurezza».

Zygmunt Bauman

Eppure, è agghiacciante leggere nero su bianco di un poliziotto che uccide un essere umano che ha la sola, gravissima colpa di essere nero. È rabbrividente assistere alla scena di forze dell’ordine che non fanno nulla per sedare pantagruelici disordini, al contrario gettano la miccia che, ancor di più, accresce il caos, in nome di un “o si fa come dico io o niente”.

«Bisogna rispettare tutte le confraternite: sono edificanti; ma tutto il bene che possono fare allo Stato può forse compensare l’orrendo male che hanno provocato? […] Si direbbe che si sia fatto voto di odiare i propri fratelli; siamo abbastanza religiosi per odiare e perseguitare, ma non abbastanza per amare e soccorrere.»

Trattato sulla tolleranza, Voltaire
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