«Il diritto d’amore è un diritto di libertà, e non l’esito di una concessione. Riconoscere una libertà è sempre difficile, sicuramente traumatico, quando la realtà si sottrae alla pretesa di incarnare valori da tutti condivisi.»
Diritto d’amore, Stefano Rodotà
Risale a solo due giorni fa un rabbrividente episodio, verificatosi a San Giuliano, in provincia di Pisa, dove è stato appiccato del fuoco ad una bandiera LGBT. Quest’ultima sporgeva dalla finestra di un’abitazione di una famiglia omosessuale, composta da due papà e da un bambino adottato. Il tentativo di incendio, perpetrato adiacentemente alla camera del minorenne, è stato fortunatamente sventato, grazie al pronto intervento dei vicini di casa.
In ordine a tale pietrificante vicenda, è sbalorditivo leggere grotteschi titoli di giornali che, nell’assurda intenzione di smussare l’iperbolica gravità del gesto, l’hanno qualificato come “una ragazzata”. Perché siamo tutti nitidamente consapevoli del fatto che la bandiera data alle fiamme evoca la dolcissima ombra della libertà, della conquista civile che ancora necessita di consumarsi, e dell’amore, che non è mai, proprio mai, un peccato di cui vergognarsi, al contrario, se non altro, il germe incorrotto della felicità.
Eppure, quotidianamente, sguazziamo in un oceano di arbitrarie discriminazioni, di atti d’odio ingiustificato, aggressioni verbali e non, che occludono l’universo psicologico di chi ne è vittima. Di chi è la colpa, se si ama una persona dello stesso sesso? Qual è la profanazione senza eguali di cui ci si macchia?
Ebbene, l’ignominioso sacrilegio che si compie consiste semplicemente nello scardinare la vetusta iconografia della famiglia tradizionale, come unico e dogmatico paradigma esistente.
E, invece, ahinoi, qua e là, sono comparsi anche modelli familiari “diversi”, migliori o peggiori di quello convenzionale, ma non per questo meritevoli di essere disprezzati, osteggiati, tiranneggiati da chi non riesce a rifuggire concezioni retrograde, medioevali, che propinano il matrimonio eterosessuale come endemico esemplare da imitare sempre e comunque, perché obbediente alla “natura”. Ma chissà per quale acrobatico sghiribizzo, la stessa natura ha forgiato anche soggetti che preferiscono persone del proprio sesso. Curioso, eh?
La verità è che tutti, indistintamente, dovremmo essere liberi di innamorarci di chi più desideriamo, senza ostruzionistiche barriere di sesso, identità di genere, senza alcun limite imposto da chi l’amore, magari, nemmeno lo conosce. La verità è che due uomini o due donne che si amano son la cosa più “naturale” che vi sia, anche se si stenta a comprenderlo. Ma la verità è anche che in un mondo che legittima guerre, in cui il razzismo si erge trionfante, è scabroso inneggiare all’amore, in qualunque forma esso si sostanzi. Anzi. Cullarsi tra le pieghe rinsecchite da un odio lancinante, seppur immotivato, è supinamente confortevole; battersi, affinché ognuno possa unirsi a chi vuole, non è altro che un “fanatico” attentato alla tumida sicurezza della tradizione. E guai a discostarsi da un chimerico passato che, mi sa, non esiste più.
Ed è proprio per questo che in Italia si combatte da ormai 24 anni per l’approvazione di una normativa, che tipizzi penalmente il reato di omofobia e transfobia. La prima proposta di legge fu avanzata nel 1996 dall’onorevole Nichi Vendola; a questa susseguirono moltissime altre, ovviamente annegate nell’oblio della legislazione italiana.
Emilio Dolcini, professore ordinario di diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano, ha più volte ribaltato la tesi retriva e tremendamente comica, secondo la quale non bisognerebbe promulgare un simile atto legislativo, dal momento che darebbe luogo ad una “discriminazione alla rovescia”. Ne verrebbe violato, cioè, il principio costituzionale di eguaglianza-ragionevolezza, ex art. 3 della Costituzione: secondo alcune impostazioni, si tratterebbe di una diseguaglianza a danno degli eterosessuali; secondo altre, di una diseguaglianza a danno di disabili, anziani e malati.
Tuttavia, è fenomeno ben noto nel nostro ordinamento giuridico che una particolare vulnerabilità della vittima, che discenda da una peculiare condizione personale o spazio-temporale, costituisca una vera e propria disparità di tutela penale. Per riportare un esempio, la legge 104 del 1992, all’art. 36, predispone un sistema sanzionatorio, il quale prevede una circostanza aggravante per alcuni reati commessi a danno di un disabile: si è al cospetto di un lampante rafforzamento della tutela penale nei confronti di soggetti deboli. Eppure, chissà perché, mai nessuno ha avanzato il dubbio circa il fatto che tale dettato legislativo possa non osservare il principio costituzionale di cui prima.
Dunque, una previsione legislativa che riconosca il reato di omotransfobia, non incappa in nessuna astrusa incompatibilità con il dettato costituzionale di eguaglianza-ragionevolezza.
«Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.»
Art. 3, Carta costituzionale
E, quindi, non pecchiamo di presunzione, se abbiamo l’ardire di affermare che qualcuno si oppone drasticamente all’opportunità di una legge che tuteli omosessuali e transessuali, perché ritiene quell’orientamento sessuale non come un elemento che abbisogna di garanzie legislative, ma come un deprecabile vizio.
«È compito dello Stato garantire la promozione dell’individuo non solo come singolo, ma anche nelle relazioni interpersonali e affettive. Perché ciò sia possibile, tutti devono essere messi nella condizione di esprimere la propria personalità e di avere garantite le basi per costruire il rispetto di sé. La capacità di emancipazione e di autonomia delle persone è strettamente connessa all’attenzione, al rispetto e alla parità di trattamento che si riceve dagli altri. Operare per una società libera e matura, basata sul rispetto dei diritti e sulla valorizzazione delle persone, significa non permettere che la propria identità o l’orientamento sessuale siano motivo di aggressione, stigmatizzazione, trattamenti pregiudizievoli, derisioni nonché di discriminazioni nel lavoro e nella vita sociale.»
Anche il Capo di Stato Sergio Mattarella ha avallato la necessità di promulgare al più presto una legge che punisca e sanzioni il reato di omofobia.
Ad onor del vero, fin da ottobre 2019 giace un ddl nelle aule parlamentari. Quest’ultimo, firmato in primis dall’onorevole dem Alessandro Zan, si compone di due articoli da aggiungere alla legge Reale, n. 654 del 13 ottobre 1975, modificata con Decreto legge n. 122 del 26 aprile 1993, noto come legge Mancino. La normativa in questione condanna i reati e i discorsi d’odio (hate speech), aventi ad oggetto caratteristiche personali: nazionalità, origine etnica, confessione religiosa ecc., per i quali si ingiunge una pena di reclusione dai sei mesi ai quattro anni.
Onde, l’obiettivo del disegno di legge è quello di estendere la suddetta sanzione anche a chi ponga in essere la fattispecie penalmente rilevante di istigazione e violenze omotransfobiche, basate, quindi, sull’orientamento sessuale e identità di genere.
Sebbene tale progetto legislativo indubbiamente contribuirà a tutelare maggiormente la comunità LGBT, compiendo un ulteriore passo verso il riconoscimento di una piena uguaglianza, potrebbe non rivelarsi sufficiente, a causa dell’inosservanza del principio di determinatezza, indispensabile in ambito penalistico. Sono molteplici, infatti, i provvedimenti legislativi civilistici, nel corpus dei quali compare la dicitura “orientamento sessuale”, di per sé estremamente generica e inclusiva, eppure lontana dall’assicurare protezione contro l’omotransfobia. Urgerebbe, perciò, una definizione più precisa e una tutela più accentuata.
Purtroppo, nel nostro portentoso paese dei balocchi, v’è ancora chi si ostina a spalleggiare parossistiche scuole di pensiero, in ragion delle quali, se si promulga tale atto legislativo, si rischia di “molestare” antinomicamente l’art. 21 della Costituzione, che proclama la libertà di manifestazione del pensiero. Peccato che ci si sia dimenticati del perentorio limite a quest’ultima: non assurgere mai ad elemento di pericolo nei confronti della dignità e dell’incolumità personale.
Più che mai, nell’Italia del 2020, è prioritaria una legge del genere, giacché il nostro ordinamento giuridico garantisce alla comunità LGBT solo il 22% dei diritti di cui godono gli altri individui (dove per “altri individui”, si intendono, com’è ovvio che sia, i maschi bianchi eterosessuali).
Non bisogna vergognarsi di amare, mai. Non bisogna essere derisi, né avvertire su di sé la logorante sensazione di essere sbagliati. L’amore è sempre giusto, di qualunque sesso sia, a qualunque soggetto sia rivolto.
Con l’ineludibile speranza che prima o poi il posto in cui si vive, la società che ci attornia possa abbracciare e accogliere tutti, a prescindere dalla razza, dalla confessione religiosa, dal sesso, da chi si ama.
«Parlare di diritto d’amore non serve per attribuirgli una legittimazione, di cui non ha bisogno e che ritrova in se stesso. Significa scoprire un modo per individuare il proprio dell’amore, mettendolo continuamente a confronto con altre parole che esprimono una posizione o una negazione: discriminazione, disuguaglianza, sopraffazione, disprezzo e, infine, egoismo individuale e sociale. Perché l’amore evoca altre parole – reciprocità, eguaglianza, dignità, rispetto, solidarietà –, che avvicinano e non allontanano, che non scavano fossati. E sono parole che, grazie anche al diritto d’amore invadono le istituzioni, ne divengono una componente ineliminabile.»
Diritto d’amore, Stefano Rodotà