Risale ad agosto dello scorso anno la vicenda in ordine alla quale l’“ex” ministro dell’interno Matteo Salvini, in applicazione delle norme dell’allora vigente decreto sicurezza bis, vietò l’ingresso nelle acque italiane della nave Open arms, che fu trattenuta a largo delle acque di Lampedusa per ben 20 giorni, con 164 migranti in pericolo di vita, poi fatti scendere su ordine del procuratore di Agrigento.
Spalleggiata da Luigi Patronaggio, la Procura di Agrigento avviò l’inchiesta, trasmessa a novembre al tribunale dei ministri di Palermo, circa la concreta possibilità in ragion della quale Salvini potesse aver commesso i reati di sequestro di persona e omissione di atti di ufficio, profittando del ruolo istituzionale illo tempore assegnatogli. È lampante, infatti, che si sia al cospetto di un atto amministrativo e non politico, dal momento che il cazzaro verde «ha ignorato l’emergenza sanitaria a bordo, di cui il Viminale era a conoscenza».
Ad onor del vero, l’amletica questione da dirimere si aggira attorno al perno dell’ormai celeberrimo “obbligo di soccorso” e dello spinoso concetto di “porto sicuro”. Ma siamo tutti ben coscienti del fatto che il leader del carroccio sia veramente duro di comprendonio (ma non per colpa sua, in fondo).
E solo per omaggiare ieraticamente l’amor di conoscenza, è nodale richiamare alcune norme del diritto internazionale che il grande Matteo ignorava o il cui senso ultimo non riusciva a compenetrare. Tanto per dirne una, la Convenzione di Ginevra, stipulata nel lontano 1951, asserisce, in ordine allo statuto del rifugiato, che quest’ultimo abbia diritto ad un’incrementata tutela, vale a dire, ad una «protezione che uno Stato offre alle persone che non sono cittadini propri e la cui vita o libertà è in pericolo a causa di atti, minacce e persecuzioni delle autorità di un altro Stato». E nel corpus del medesimo atto, si affaccia il divieto, secondo il quale gli stessi rifugiati o richiedenti asilo vengano riportati «nei territori in cui la loro vita o libertà è messa in pericolo a causa della loro razza, religione, gruppo sociale o opinioni politiche».
La Convenzione internazionale sulla ricerca e sul salvataggio marittimo, ribattezzata comunemente come Convenzione Sar, assevera che gli Stati firmatari debbano impegnarsi con il capitano della nave «per condurre le persone soccorse in mare in un luogo sicuro». E da quando un luogo capeggiato da milizie di schiavisti, che mortificano e violano nella maniera più degradante possibile i diritti umani più elementari, come avviene in Libia, assurge al rango di “luogo sicuro”?
Per non parlare poi della Dichiarazione universale dei diritti umani, che all’art. 14 recita:
«In caso di persecuzione, ogni persona ha il diritto di chiedere asilo in altri paesi».
E così, una valanga di altri dettati legislativi.
Ma per fortuna, sul cabalistico rompicapo (per Matteone, solo così può definirsi) circa l’osservanza delle norme di diritto internazionale, ogni dubbio è stato prepotentemente annientato dalla sentenza della Corte di Cassazione 6626/2020, pubblicata il 20 febbraio scorso, che ha fatto luce su una delle vicende più appassionanti della passata estate: Carola Rackete a capo dell’imbarcazione Sea Watch 3, addirittura arrestata per resistenza a pubblico ufficiale e violenza contro nave da guerra, solo per aver permesso a 42 migranti salvati in acque libiche, di sbarcare a Lampedusa. Avete capito che peccato gravissimo sia salvare vite umane?
La Corte di legittimità, evidentemente troppo “buonista”, offrendo una definizione “estesa” di dovere di soccorso in mare, ha ritenuto che questo fosse non solo (com’era ovvio che fosse) una fonte gerarchicamente superiore alle norme interne di diritto nazionale (ergo, proprio lui: il decreto sicurezza bis), ma oltremodo che esso fosse inderogabile e potesse dirsi adempiuto solo con lo sbarco dei migranti «nel più breve tempo ragionevolmente possibile», in un luogo ove potessero chiedere protezione internazionale. E “purtroppo”, la protezione internazionale è un’operazione che «non poteva certo essere effettuata sulla nave».
E quindi, il processo contro l’“ex” ministro dovrebbe far tabula rasa di ogni sospetto, che si ergerebbe sulla presunta antinomia tra un preminente interesse pubblico di Governo a non autorizzare lo sbarco (che poi, permane nell’oscurità quale sia questo interesse) e il dovere di soccorso dei migranti, la tutela della loro dignità e libertà personale nel periodo di permanenza sull’ong.
Ma Matteo è una risorsa indubitabilmente preziosa, e non stupisce per niente che Maurizio Gasparri, presidente della Giunta per le Immunità del Senato, abbia instaurato una votazione al fine di “immunizzarlo” e, quindi, evitare la celebrazione del processo. Non meraviglia nemmeno che quest’ultima ieri si sia conclusa con 13 voti favorevoli contro 7 contrari proprio alla stessa immunizzazione del cazzaro verde.
Eppure, vi è anche chi ha il grottesco coraggio di affermare che, riguardo a Matteone, non sia stata effettuata un’istruttoria seria e, proprio per questo, ha deciso di astenersi, avallando i voti favorevoli.
Il nome Matteo, di certo, dev’esser carico di significati oscuri, eppure tremendamente comici.
Il leader di quella specie di partito, che si inerpica su un solipsistico disturbo narcisista, sulle pieghe di un’impacciata non conoscenza delle leggi, ovviamente ha esultato.
A noi comuni mortali rimane solo una flebile speranza che il Senato, stavolta, adotti una decisione sulla scia dell’illuminazione della dea Dike, auspicandoci che trionfi il sentimento di umanità, ormai smarrito, e non anche turpi interessi politici che stuprano il senso stesso di giustizia.