Segreto e potere nella criminalità organizzata

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I fattori che rendono solide le organizzazioni criminali risiedono certamente negli elementi strutturali, che riflettono il loro modo di organizzarsi in vista degli scopi, e nell’ insieme dei legami clientelari esterni che ne supportano le strategie. Dal nostro punto di vista, però, conviene andare a fondo ed indagare sugli elementi nucleari caratterizzanti il sostrato antropologico-culturale, posto a fondamento del consenso e del senso di appartenenza degli “adepti”, e garante dello slancio nel tessuto economico “glocale”[1].

All’apice della compattezza delle consorterie criminali riconosciamo l’ormai consolidato patrimonio culturale, costituito non solo dal consenso, ma da un alone di segretezza, veicolato dai riti e da rappresentazioni simbolico-immaginative. Pur nel loro misticismo, sono pratiche che rinchiudono gli attori sociali in un recinto culturale che ne fortifica l’appartenenza all’organizzazione.

L’intento di questa trattazione è di richiamare alcuni aneddoti sulla criminalità organizzata campana. C’è da dire, però, che, ad eccezione delle specificità del caso, gli elementi che elencheremo accomunano le altre organizzazioni mafiose e ne garantiscono l’espansione ed il successo.

L’essere umano è contraddistinto dalla continua tensione verso la ricerca di un senso per tutti gli eventi per lui inafferrabili. Il tentativo di categorizzare e, quindi, di operare una schematizzazione, è un elemento presente in tutte le culture. Permette all’uomo di controllare l’incertezza generata dal vuoto spazio-temporale. Ciò avviene da sempre per il più grande dei misteri, l’universo, ma trova applicazione in tutte le circostanze dove non ci sono dei riferimenti fondanti (Signorelli, 2011).

Il mito della fondazione permette di colmare questa prima domanda fondamentale ed esistenziale ed il bisogno ad essa legato, configurandosi come il primo passo per la costituzione del senso di appartenenza.  

E così, per la camorra e le varie organizzazioni, viene raccontata un’origine: il mito racconta di tre antichi cavalieri spagnoli di nome Osso, Mastrosso e Carcagnosso, appartenenti alla società segreta di Toledo, conosciuta come La Guarduña.  Erano in fuga per aver difeso l’onore della famiglia, vendicando col sangue un danno arrecato ad una sorella. Si rifugiarono nell’isola di Favignana e lì lavorarono sottoterra per costituire le regole sociali della più grande organizzazione cavalleresca. Riemersi, Osso si recò in Sicilia, Mastrosso in Campania e Carcagnosso in Calabria. Ognuno dei cavalieri sarebbe stato legato ad una figura religiosa. Osso avrebbe goduto della protezione di San Giorgio; Mastrosso della Madonna o dell’Arcangelo Gabriele, mentre Michele Arcangelo sarebbe stato a protezione di Carcagnosso (Ciconte, 2011). Un’invenzione di pura fantasia, ma che, tuttavia, lascia negli affiliati la memoria di una discendenza nobiliare, in cui il profano si mischia col sacro per trovare protezione e autorevolezza.

Il dare una cornice di senso all’azione attraverso la narrazione del mito non basta a coinvolgere i sodali. Per far sì che si rappresentino come parte attiva dell’organizzazione, vengono introdotti i riti. Questi permettono la strutturazione di un senso di partecipazione culturale che coinvolge i sodali, i quali, grazie ai riti, mettono in pratica ciò che è stato in passato, attualizzandolo e rendendolo concreto.

Il rito, collegato ad un mito “lo celebra, […] non solo nel senso che lo rappresenta, mette in scena la storia che nel mito è narrata, ma in un senso molto più forte e cioè che il rito rende presente […]” rinnovandone tutte le implicazioni e conseguenze” .

(Signorelli, 2011, 116)

Il suo scopo è quello di riportare gli uomini nel luogo e nel tempo da cui tutto ebbe principio, e solo a partire da questo, è possibile un passaggio ulteriore.

L’iniziazione e la scalata attraverso i vari gradi di camorrista, per quello che sappiamo dalle poche fonti, erano sanciti da rituali di passaggio di cui i membri non erano a conoscenza, se non nel momento opportuno.

Il rito di iniziazione al grado di camorrista ci viene ben narrato da Marc Monnier, scrittore e poligrafo italiano naturalizzato svizzero. Visse a Napoli nel 1832 e proprio lì trovò l’ispirazione per la prima opera e fonte sull’esistenza della camorra ottocentesca. Riprendendo le sue parole:

“L’aspirante entra nella stanza a volto scoperto. Sul tavolo c’è un pugnale, un bicchiere fittiziamente avvelenato e una pistola. Il picciotto conficca il pugnale nel tavolo e, prendendo il bicchiere avvelenato e la pistola carica, fa segno di non aver timore di morire dinnanzi al capo; il capo arriva in soccorso, butta il bicchiere a terra, scarica la pistola in aria; tenendo con la sinistra il capo del giovane prostrato ai suoi piedi, lo proclama camorrista ponendogli il pugnale dapprima riposto nella guaina con la mano destra; infine chiede ai compagni di riconoscerlo.”

Miti, e rituali connessi, contribuiscono nella loro reiterazione nel tempo a sostanziare un sistema di credenze e norme condivise, ad un certo punto date per scontate dai sodali. Quello che le organizzazioni mafiose sanno è che questo non basta a prevenire fenomeni endogeni di tradimento. Ecco perché le consorterie necessitano di mantenere oscure le pratiche e la struttura interna ai propri sodali, i quali possono accedere ai riti nel tempo e nei modi dettati dal gruppo di cui fanno parte. Ciò vale per difendersi dai membri interni e dalle istituzioni esterne.

Sempre Monnier ci racconta:

Il grado di picciotto, precedente a quello di iniziazione, era ottenuto se il giovane d’onore (detto nel gergo tamurro), l’equivalente del garzone, aveva l’ardire di raccogliere una moneta gettata a terra mentre gli altri compagni cercavano di prenderla conficcandola con un pugnale. Superata la prova otteneva tale grado con il lascito permanente di uno sfregio sulla mano

(Monnier, 2014)

Il segreto elimina i punti di riferimento per minare l’organizzazione, i suoi nodi strategici e, quindi, la conoscenza del fenomeno necessaria a combatterlo; cela l’organizzazione all’esterno, ma soprattutto all’interno, incentivando gli affiliati alla scalata. Qualunque membro è costretto a non parlare e a non svendere la segretezza del sodalizio, affinché questo possa esercitare una certa influenza. Precludendo la conoscenza del dopo attraverso la segretezza rituale, è possibile controllare le azioni degli appartenenti alla setta, eliminando sul nascere qualsiasi tentativo di sovversione. Ogni membro non sa cosa gli si porrà dinnanzi, potrà solo crearsi delle aspettative. È in questo senso che il segreto, accompagnando l’affiliato di dote in dote lungo il cursus honorum, diventa controparte essenziale del potere: l’esercizio del controllo.

In sostanza la cultura camorristica caratterizza un tessuto sociale a sé stante, che è inestricabilmente collegato a quello cittadino, nel quale confluisce e verso il quale si rende impermeabile. Lo scambio dialettico tra i due tessuti, e il trasferimento dei valori nella nostra società, si manifestano in tutta la loro forza nelle scelte e nei comportamenti di omertà.

Ad oggi non sappiamo se la camorra si serva di contenuti culturali così densi. Il fenomeno delle continue rappresaglie e della diversificazione delle alleanze, lasciano pensare ad una cultura che è venuta meno e che nella sua debolezza non funge più da regolatore interno alle organizzazioni. Del resto, la frammentarietà dei clan è una caratteristica distintiva della camorra campana, specialmente in riferimento ai clan dell’area metropolitana. Ciò che affascina di questo fenomeno tutto campano, è la diversificazione delle loro caratteristiche nel tempo e tra diverse aree del territorio. Più che di camorra, potremmo parlare di camorre.[2]: alcune, come quella urbana della città di Napoli, maggiormente connessa al tessuto economico-sociale-culturale dei quartieri, o quella dei clan della provincia di Caserta con caratteristiche più verticistiche che ricordano Cosa Nostra, di cui ne è la costola.

Il contrasto a questi fenomeni non può non essere legato alla comprensione degli aspetti culturali che ne fondano la durevolezza e la stabilità nel tempo.

Riferimenti

Signorelli A. (2011), Antropologia Culturale, McGraw-Hill, Milano.

Ciconte E. (2011), ‘Ndrangheta, Rubettino, Catanzaro.

Monnier M. (2014), La camorra, Edizione di Storia e Studi sociali, Perugia, (ed. or. 1862, La camorra: notizie storiche raccolte e documentate per cura di Marco Monnier, G. Barbera, Firenze).

De Blasio A. (1993) (a cura di), Usi e costumi dei camorristi: storia di ieri e di oggi, Napoletanina Tascabile, Napoli.

Sales I. (1988), La camorra Le camorre, Editori Riuniti, Roma.


[1] Termine elaborato dal sociologo Zygmunt Bauman per adeguare il panorama della globalizzazione alle realtà locali, così da studiarne meglio le loro relazioni con gli ambienti internazionali.

[2] Termine ripreso da, Sales I. (1988), La camorra Le camorre, Editori Riuniti, Roma.

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Psicologo, con esperienza maturata in ambito organizzativo. Ha conseguito la laurea in psicologia del lavoro con una tesi sul work-life balance.
Co-fondatore de Il Controverso, cura la rubrica #SpuntidiPsicologia e scrive di tematiche riguardanti la criminalità organizzata.

"Scrivo perché amo andare a fondo nelle cose"

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