Quanto stanca videochiamare? “Due meccanismi psicosociali per rispondere alle nostre sensazioni”

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Chi tra noi non si è trovato a riflettere su quanto sia diverso e faticoso partecipare ad una video call piuttosto che ad una lezione dal vivo dello stesso numero di ore? Non è insolito avvertire una sensazione di stordimento; il più delle volte ci sembra di prendere una boccata d’aria e di riemergere dalla più profonda delle avventure oniriche. Ebbene, la «fatica da videocall», che sia Skype, Meet, Face-time è una realtà”.

Nella comunicazione di tutti i giorni i gesti, la postura, la mimica facciale sono i principali indizi da cui traiamo il significato dei discorsi, ancor prima delle parole. Se il sistema linguistico arricchisce di sfumature gli scambi, li rende più dettagliati e si inserisce quale mezzo culturale e simbolico di significazione e co-costruzione della realtà condivisa dalla comunità, l’essenza del nostro linguaggio risiede nella comunicazione non verbale, che «anticipa e trascende l’espressione verbale stessa». In una tradizionale conversazione, siamo intenti a cogliere unicamente il senso delle frasi (cosa comunichiamo), mentre la decodifica dei segnali comunicativi provenienti dai corpi, dall’emittente al ricevente, continua a fluire in maniera circolare e bidirezionale. La mediazione dei nuovi mezzi tecnologici mette a dura prova la detezione delle informazioni maggiormente legate all’atto comunicativo (come comunichiamo). Ciò si sostanzia in una richiesta di attenzione superiore, la quale dovrà districarsi nel tentativo di recuperare quegli indizi che siamo naturalmente portati a considerare, e ridurre così la dissonanza tra la comprensione del contenuto dei messaggi e i “tentativi del nostro corpo di recuperare la comunicazione più viscerale ed emotiva”. Se questo mito è stato sfatato, potremmo porci un’altra domanda.

Come ci sentiamo l’attimo prima che l’altra persona si colleghi alla video call?

Un’implicazione additiva alla precedente è l’effetto spotlight. Tipicamente, nel nostro vivere sociale e pubblico, sovrastimiamo l’attenzione che gli altri pongono nei nostri confronti, rispetto a ciò che diciamo o alle espressioni che assumiamo. Come ci suggerisce il termine inglese, la nostra tendenza è quella di sentirci come sotto i riflettori: proviamo a pensare alla eccitazione e alla vergogna di un discorso pubblico. Oltre ad esprimerci, siamo intenti nella gestione di come potremmo apparire, fino al punto che, in alcuni casi, la preoccupazione sovrasta la prestazione. Al di là delle differenze individuali, questi aspetti nascondono la tendenza a percepire una certa pressione sociale, che non sempre sussiste. L’incontro tra queste due tendenze appena descritte, e il conseguente dispendio di risorse tra la ricerca di indizi prossemici e la gestione della propria immagine in relazione al contesto sociale, determina effetti di fatica maggiori rispetto alle nostre interazioni quotidiane.

Quali i consigli?

Lungi dal sottovalutare la capacità umana di adattarsi a nuove condizioni, il suggerimento è quello di ridurre per quanto possibile queste modalità, preferendo una comunicazione tradizionale.

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Psicologo, con esperienza maturata in ambito organizzativo. Ha conseguito la laurea in psicologia del lavoro con una tesi sul work-life balance.
Co-fondatore de Il Controverso, cura la rubrica #SpuntidiPsicologia e scrive di tematiche riguardanti la criminalità organizzata.

"Scrivo perché amo andare a fondo nelle cose"

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