Silvia Romano è libera, però abbiamo pagato per il riscatto: soldi che ci ha rubato lo Stato. Silvia Romano torna in Italia, però ha una veste musulmana. Silvia Romano sta bene, non ha ferite, non è mutilata, è affetta dalla sindrome di Stoccolma – è anche incinta, non vedi la pancia? Silvia Romano è stata rapita in Kenya dove ha svolto volontariato, però se l’avesse fatto a casa sua, qui in Italia, non sarebbe successo mai nulla. Silvia riabbraccia i genitori dopo un anno e mezzo di prigionia, ma non rispetta il distanziamento sociale imposto per la pandemia Covid.
Questa è stata la risposta che hanno dato gli italiani alla liberazione di Silvia Romano, rapita in Kenya nel Novembre del 2018 da uno dei gruppi jihad più temuti, durante un progetto di volontariato, svolto proprio lì.
Il rapimento è avvenuto nel modo più minuzioso possibile nel cuore della notte. Durante i 18 mesi di prigionia, nei quali ha cambiato sei carceri e sei carcerieri di cui non ha mai visto il volto, perché sempre bendata – secondo il resoconto di Silvia noto alla procura di Milano – non le hanno fatto del male, poiché preziosa merce di scambio.
Il corano e una veste erano le uniche cose che le sono state donate.
Un’attesa estenuante per la famiglia che di lei non ha avuto più notizie da quel tragico 20 Novembre, fino a quando una telefonata da parte del prefetto non riaccende i loro occhi «Abbiamo Silvia, stiamo tornando a casa».
La liberazione è avvenuta ufficialmente il 9 Maggio. Ci sono voluti in realtà tre giorni prima per raggiungere il punto di scambio e rilascio concordato con l’Intelligence Italiana e le forze Turche. Il rilascio è avvenuto tramite il pagamento di una cospicua somma di denaro, 4 milioni, dei quali, si dice, serviranno ora ai gruppi jihad per acquistare armi.
Silvia arriva all’aeroporto di Ciampino con un velo, un jilbab di colore verde. Zainetto in spalla, mascherina, ed’è corsa ad abbracciare la sua famiglia in una stretta che sa di libertà e speranza. Al suo rientro, in aeroporto, ad aspettarla vi erano anche il Premier Conte e il Ministro degli Esteri Di Maio. Dice «Sto bene, sono felicissima di essere qui, ora voglio solo passare del tempo con la mia famiglia». Ed è quello che cerca di fare. Tornata a casa nella sua Milano, una folla immonda di giornalisti la assale. «Tornerai mai in Kenya?» è la domanda che le viene fatta, tra le tante che una persona avrebbe mai potuto scegliere. «Rispettate questo momento», Silvia così risponde.
Un saluto dalla finestra di casa, un sorriso, e va via.
Rispettate questo momento. Eppure gli italiani, o almeno una parte di loro, tale momento di rispetto paiono non averlo mai voluto abbracciare.
Nell’ultimo anno sono state altre 3 le vittime sottratte dalle mani di rapitori terroristi, e anche in questo caso, senza il pagamento di un riscatto, non si sarebbe dato il via a nessuna forma di salvataggio. Alessandro Sandrini, Sergio Zanotti e Luca Tacchetto, ricordiamo anche Simona Torretta e Simona Parri, libere dal 2004.
Era il 2016 l’anno del rapimento di Sergio, avvenuto durante un viaggio in Turchia, liberato soltanto tre anni dopo. Il 2016 è stato anche l’anno del rapimento di Alessandro, liberato nel maggio del 2019 e infine di Luca Zacchetto, libero nel marzo 2020. Tutti i rapimenti hanno ricalcato la stessa strategia: durante la notte, sotto effetto di qualche droga, e tutti geograficamente collocati in Turchia, al ridosso dei confini siriani. Di loro mai nessuna polemica, solo gioia e riconoscenza.
Al loro rientro, anche Simona Parri e Simona Torretta indossavano abiti somali, il loro riscatto è costato poi 4 milioni – così come per Silvia – eppure al rifiuto e allo sgomento è stata sostituita gioia, pura gioia.
La domanda a questo punto, sorge lecita: perché tanto odio per Silvia Romano? Per rispondere nel modo più consono possibile, bisognerebbe trovare la risposta nella rabbia che ha assorbito gli italiani in questo preciso momento storico. Le misure restrittive scelte per rallentare la diffusione della pandemia Covid19 hanno bloccato moltissime attività, lasciando quasi metà della popolazione in cassa integrazione, e molti non hanno ricevuto ancora nulla da parte dello Stato. Le multe da pagare per chi non rispetta la quarantena o, nella FASE2, le misure del distanziamento sociale, sono salatissime. Aspettare un vaccino – e un finanziamento importante per un vaccino – che pare non arrivare mai. Restare in casa per sessanta lunghi giorni, mettere stop alla propria vita frenetica, la paura crescente per il contagio. Tante piccole micce che hanno portato una bomba a esplodere molto presto.
Ma non finisce qui. Tanta rabbia sociale repressa viene poi sommata alla famosa islamofobia e alla superiorità che l’occidente nutre per la propria religione. È inaccettabile pensare che una giovane ragazza si sia convertita ad una religione che l’ha imprigionata, inaccettabile che indossi delle vesti così sporche di violenza e repressione dei diritti umani. Allora sarà Sindrome di Stoccolma, sicuramente sarà complice anche lei di vile terrorismo. E Vittorio Sgarbi che, facendo vela sul finanziamento italiano ai meriti dell’Islam, infine dice «Arrestiamola!».
Ma risulta davvero così complicato accettare che in un paese laico, una giovane donna possa essere libera di praticare una religione in cui crede? Forse l’unica cosa che le ha dato la forza di sopravvivere in una situazione talmente atroce che ancora fatica a raccontare nei dettagli.
L’Italia dimentica da dove nasce la miseria in Somalia, dimentica che la Somalia è stata una colonia italiana e quanto abbia sofferto per questo. Dimentica il periodo del fascismo, il sostegno con gli affari sporchi con il dittatore Siad Barre, la vendita di armi durante la guerra civile. Nell’immaginario collettivo, tutto ciò ha portato a pensare ai somali come un popolo di miseri selvaggi, violenti e cruenti, e alle donne come schiave vittime di un sistema e di una religione, facendo, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. Dimenticando, in fin dei conti, che ci sono popoli che amano la propria religione, al di là di dittatori sovranisti o di gruppi terroristici, che infangano i valori di una fede che non ha nulla a che vedere con la violenza o con il sangue.
Salam Aleikum, che la pace sia con te.
Aileikum Salam, che con te sia la pace.
Un saluto carico di significato, un’usanza importante sostituisce il nostro frettoloso ciao occidentale e scandisce le relazioni di una cultura tanto affascinante quanto tormentata.
La verità che l’Italia, dovrebbe lasciarsi alle spalle tutti quei retaggi – anche linguistici – figli di un colonialismo passato. Smettere di pensare che un popolo, solo perché più avanzato, sia più felice e libero di un altro. Smettere di credere che un velo tolga la libertà ad una donna, senza pensare mai, neanche per un attimo, che magari, a quella donna, piaccia maledettamente tanto indossare quel velo. Smettere di pensare che il ramadam sia più folle dei quaranta giorni di digiuno di Gesù nel deserto, prima di celebrare la Pasqua. Imparare soprattutto a scindere rituali religiosi da follie terroristiche di criminali che di Allah utilizzano soltanto il nome. Così come abbiamo imparato a dissociarci, nel corso degli anni, dalle follie di genti associate a Cosa Nostra, Mafia, Camorra. Da episodi che hanno sporcato – e continuano a sporcare – l’Italia tutta di violenza, sangue, rapimenti, soprusi, ricatti.
Che differenza c’è tra un gruppo di criminali che ha avuto a capo Totò Riina, e un altro che ha avuto a capo uno che si chiamava Al-Quaeda. Le quantità di sangue versato sarebbero imbarazzanti da comparare, da brividi. Eppure, la malignità è stata la stessa. Come la villaneria, la fame di potere, la morbosità per il denaro e per le armi. Soprattutto il non sporcarsi mai le mani, perché era sempre qualcun’altro che lo doveva fare. Seguaci mossi da un indottrinamento di codici d’onore e leggi morali di gruppo che non dovevano assolutamente essere messi in discussione, altrimenti infedeli, altrimenti ingrati.
Codici d’onore, formule religiose, che differenza c’è se riescono ad avere lo stesso potere? Un capo è tale se riesce ad avere carisma, forza, potenza. Un capo è un capo, solo con un diverso nome e con una scusante diversa da contestualizzare alla società di cui si fa parte. Se pensiamo alla Sicilia, a un paesino della bella Sicilia passata, in cui il legame familiare è di importanza fondamentale per il senso di appartenenza alla vita , che differenza c’è se ci spostiamo dall’altra parte del continente in Iran, Afghanistan, in cui è il legame alla religione l’unica reale forma di vita.
La violenza è violenza. Resta tale, a prescindere dalla cultura che viene ingiustamente coinvolta. La criminologia, con la teoria della neutralizzazione della colpa, ci spiega come i criminali, di fronte a reati compiuti e attraverso l’utilizzo di formule linguistiche, cercano di deresponsabilizzarsi dal danno commesso. In questo senso, molto più pratico: i terroristi islamici utilizzano richiami ad una moralità più alta, quindi religiosa (è il volere di Allah) i terroristi mafiosi, invece, richiami sociali e familiari attraverso, inoltre, l’adesione ad un codice d’onore (la gente è povera, la mia famiglia deve mangiare, lo Stato se ne fotte).
Qual è, dunque, la differenza? Essa sta forse in una sconfitta che l’occidente non riesce ad accettare, in un passato che rinnega piuttosto che valorizzare per la civiltà che a poco a poco siamo riusciti ad ottenere. Allora tutto ciò che ci riporta a quello che siamo stati, è da disprezzare amaramente.
Napoli, 24 anni, laureanda in Servizio Sociale. Teatro, musica, cinema, bud's e diritti umani.
Il ritorno difficile di Silvia Romano, commento di Marcella Marmo Sacerdoti
Sommersi come siamo stati un mediatico sfrenato su Silvia Romano al suo rientro in Italia, lo scritto di Giusi Mangiacapra mi ha stimolato un commento innanzitutto perché sono studiosa di storia contemporanea e leggo qui con interesse considerazioni informate di storia (sui retaggi colonialisti degli Italiani verso quanto rimbalzi dalle terre somale, come sul confronto tra le violenze terrorista e mafiosa, campo di mia ricerca). Inoltre, lo scritto tiene insieme pensiero e sentimenti, di indubbia qualità, che a me risultano però alquanto unilaterali nel mediatico affollato da destra e da sinistra, con picchi di fango fascistoide da destra, alcuni ideologismi da sinistra, alcune posizioni più utilmente discorsive. Il mio commento va sull’idea che gli approcci semplificatori sono di per sé inadeguati alla storia drammatica e complessa di questo rapimento con esito di riscatto, come e più di altri svoltosi in un contesto geopolitico che complica pensieri e sentimenti nostri più semplici e diretti sulla persona della vittima, le fondamentali ragioni umanitarie e della tolleranza religiosa (ho presente l’intervento di Clara Letizia in ControVerso del 12 maggio). Spero di non venire fraintesa, se non mi fermo a una valutazione frettolosa della conversione di Silvia Romano come adesione profonda a un nuovo credo.
L’approccio di G.M. risulta unilaterale nell’ingresso brillante sulle cattiverie riversatesi su Silvia Romano. Giusto osservare la solidarietà fittizia, con le riserve dei però che mal celano le critiche in crescendo, dal riscatto alla veste musulmana alla carità che si può fare pure in patria…, sino al sospetto della gravidanza (ben corrispondente, possiamo completare, al topos del genocidio etnico che passa per lo stupro, orrore degli orrori come sappiamo dalla guerra serbo-bosniaca; ma potremmo rispolverare l’antico ratto delle Sabine, e i melodrammi di Verdi dove il gruppo dei patrioti va alla guerra per liberare le donne fatte schiave dal nemico). Il gioco dei però che raccolgono la matassa delle cattiverie, viene quindi riferito a un soggetto assai ampio, “gli italiani”: troppo ampio, sovente abusato ogni qual volta l’opinione democratica si trova di fronte a deficit diffusi di moralità, coerenza o quant’altro. (Non è inutile qui dire che “gli Italiani” è topos sul carattere nazionale risalente, per esempio dal leopardiano Discorso sopra i costumi degli Italiani del 1824 che osservava una “società sciolta”, indietro nei processi di aggregazione sociale e sviluppo dell’opinione pubblica, indotti in Europa dalla rivoluzione francese. Successivo e diverso, il topos popolare degli “Italiani brava gente”, menzognero tra fascismo, colonialismo e dopoguerra; nella democrazia in tensione del post ’68, echi graffianti di rigetto della commedia all’italiana: “ma che siamo in un film di Alberto Sordi?”).
Chiusa qui la parentesi circa il collettivo “gli Italiani”, G.M. più avanti ammette che sono “solo una parte di loro” a non avere rispetto per Silvia Romano, propriamente a odiarla. Si interroga bene quindi sulla rabbia, che dalla presente crisi pandemica ossessiva scarica sui social violenza alla ricerca di un oggetto. Ai sentimenti negativi che da destra si riversano su Silvia il discorso connette facilmente la islamofobia, che, verso le terre somale della tremenda prigionia, dimentica le responsabilità dell’Italia potenza prima di colonialismo odioso e sfruttatore (ma a quanti Italiani è previsto che arrivi questa memoria storica? e inoltre, quale diretta attinenza ha la miseria somala con la frantumazione del Paese e la guerra civile esplose nel contesto geopolitico di fine ‘900, quando nell’ampio Medio Oriente emergono partiti islamisti e gruppi terroristi militari?).
Più articolate sono le considerazioni che la reazione attuale anti-islamica a ben vedere risulti una rivalsa, per la sconfitta dell’Occidente, che ha perso anche la propria religione (dunque, si adombra nell’ultimo capoverso, soffre come di inespressa nostalgia di quel che negli studi si dice the world we have lost, il mondo che abbiamo perduto). Il pensiero di G. M. si svolge con chiarezza verso l’impostazione, nota come post-coloniale, di valorizzare finalmente i mondi “altri” già sfruttati e culturalmente vilipesi come inferiori. Di qui, a premessa della cruciale conversione di Silvia Romano, la sensibilità di Giusi dedica attenzione al campo religioso che divide colonialisti sconfitti e popoli ancora meravigliosamente affratellati nei saluti di pace. Alla religione buona dei popoli islamici viene ricondotta, come riprenderemo, la conversione di Silvia: a una fede che nulla ha a che vedere con la violenza di dittature sovraniste e gruppi terroristi in nome di Allah, dei quali appunto Silvia è stata vittima.
Circa la violenza delle armi, lo scritto va a un’altra apertura di rilievo: che differenza fa, c’è differenza forse tra la ferocia dei terroristi islamici e quella dei mafiosi italiani? Torna evidentemente ancora in ballo l’Italia, femminile singolare: come altrove in Occidente, l’enfasi è assoluta sugli islamisti criminali in nome di Allah, mentre intanto il Bel Paese (il topos qui è mio) ospita e tollera efferatezze radicate, protette da codici culturali e rituali detti d’onore (che gli studi facilmente decifrano come idiomi di prepotere militare e interconnessi familismi). Alla sensibilità etico-politica di G.S. nel vedere le due violenze equivalenti, non sfugge certo che le quantità di sangue versato da Al Qaeda e da Riina non sono comparabili. Qui sarebbe superfluo precisare che le differenze risultano essenziali se, dalle attrezzature omicide e militari, la visuale si allarga ai profili dei due fenomeni del tutto diversi per strategie e pratiche dentro i rispettivi territori politici e sociali; dunque, calando l’etica di antiviolenza nei fatti storici concreti del dominio criminale.
L’afflato etico che ispira l’intero scritto entra nella vicenda dura di Silvia Romano attraverso l’empatia con le forme umane della vita delle popolazioni islamiche, secondo l’approccio postcoloniale relativista su richiamato, che delle società buone vuole valorizzare, pur nelle differenze, la religiosità e l’amore per la pace. Questo tema del valore intrinseco di religiosità diverse e tutte umane fa da cornice al discorso sulla persona, nello spazio di alcune righe essenziali per Silvia. Last but not least, ripercorriamo il discorso sulla cruciale conversione, che focalizza il credo religioso come campo di libertà di fede, secondo l’accezione interiore individuale, a ben vedere, della cultura occidentale (come chiariscono l’antropologia interpretativa di Geertz e lo stesso orientalismo di Said, lo sguardo dell’analista sull’altro non può escludere snodi di fondo della propria cultura). La libertà individuale di fede viene dunque al centro della conversione volgarmente vilipesa, su cui G. M. s’interroga: in un paese laico (l’Italia dimentica delle responsabilità coloniali nella miseria somala, come sopra) non è stata evidentemente accettata la libertà di questa donna prigioniera di “praticare una religione in cui crede. Forse l’unica cosa che le ha dato la forza di sopravvivere”, “in una situazione talmente atroce che ancora fatica a raccontare nei dettagli”. Ma qui, a prima lettura viene da dire: raccontare nei dettagli, come potrebbe Silvia? Come potrebbe essere questo il momento di parlare di sé in profondo, e a chi: riversare – ancora nel mediatico! – esperienze di conversione dentro la prigionia, che presuppongono di venire riattraversate in training impegnativi. Questo campo della fede, del credo sicuro, o viceversa di quello forzato, sono certo zone minate da non avvicinare, se non considerandole in ipotesi, prevedendone intrecci nelle esperienze estreme di prigionia in balia di carcerieri. Non viene qui evidentemente in discussione la tolleranza religiosa che a ogni conversione ognuno deve, ma l’opportunità di una riflessione critica circa la presentazione, intrinsecamente arbitraria, che G. M. fa della conversione di Silvia/Aisha come credo.
La selezione assiomatica del credo religioso imperscrutabile si rivela sommaria, se osserviamo come G. M. dedichi un commento molto approssimativo ad aspetti essenziali proprio per l’invasione mediatica subita, quali l’abito islamico indossato all’arrivo a Ciampino, e le dichiarazioni ufficiali sulla conversione e il nuovo nome, che di per sé hanno portato Silvia/Aisha immediatamente nella sfera pubblica italiana; esponendola alla girandola di cattiverie e solidarietà, probabilmente neanche prevedibile. La sovraesposizione mediatica richiede di riflettere per un verso sul contesto politico e geopolitico della liberazione (dove i Turchi hanno avuto ruoli di primo piano), per altro verso sulle implicazioni culturali della comunicazione di sé che Silvia/Aisha ha inteso dare, inevitabilmente destinate a complicarsi quando il pubblico si allarga.
Mi limito qui a dire che nella diretta da Ciampino più persone (ben lontane dalla marmaglia fascistoide e dalle cattiverie) hanno visto una figura ibrida: Silvia libera e felice nell’abbraccio con la madre, una pregnanza espressiva ed emotiva, sono state percepite in immediata dissonanza con l’abito islamico – posticcio, teatro, esibizione “fuori luogo”. L’abito dice forse credo religioso, imperscrutabile lettura del Corano? Identità femminile islamica, d’emblée acquisita nella prigionia trascorsa peraltro senza donne? Intanto, l’abito è quello dei carcerieri di Silvia/Aisha – spero anche su questo punto di schivare il sospetto di cattiveria destrorsa. Il turbamento che il vestito islamico a Ciampino ha potuto suscitare, sembra adeguato al percorso nebuloso che riporta a Ciampino Silvia felice libera, in jilbad: abito identitario&politico a chiudere il sequestro terrorista, non sappiamo quanto scelto o imposto, se indossato nella conversione, o nella sosta protetta dagli 007 turchi all’ambasciata italiana di Mogadiscio in vista della partenza per l’Italia.
Per non trascurare apparenti dettagli del testo di G. M. appunto sul vestito del ritorno, va osservato che c’è disattenzione sul versante antropologico dell’abito esibito. Lo jilbab verde, abito corrente di passeggio delle donne di Kenya e Somalia, non connesso a rituali religiosi e però riconosciuto musulmano nel coprire il corpo femminile lasciando scoperto solo il viso, viene da G. M. equiparato ai kaftani che avevano indosso le due Simone al ritorno in Italia: vistoso errore, essendo questi abiti sbracciati e senza copricapo, tanto femminili quanto maschili, afro-asiatici casual e altri stili, non a caso adottati in Occidente dal ’68 in avanti.
Si può dire che la scelta di Giusi Mangiacapra di selezionare il credo religioso, se può spiegare la confusione tra jilbab e kaftani, più a fondo trascura gli snodi identitari importanti degli abiti femminili islamici, unificati come ‘velo’. Che sono pratica culturale funzionale al controllo maschile sul corpo della donna, da questa introiettata e vissuta nell’identità, che attraversa com’è noto le relazioni multiformi della vita: il velo è certo campo significativo di un’antropologia integralista, tra religioso e politico, che qualifica la differenza islamica ineludibile con la cultura occidentale dell’emancipazione femminile (come della separazione Stato-Chiesa, Diritto e Shari’a). Penso che la differenza di genere abbia mostrato lo jilbab a Ciampino “fuori luogo”, come mi consta a più persone, anche a prescindere dai livelli di acculturazione e opzioni ideologiche circa le alternative tra universalismo e relativismo, aprire/ chiudere / ibridare la comunicazione tra le culture umane.