Durante gli annunci pubblici dei DPCM, abbiamo più volte sentito il presidente del consiglio Giuseppe Conte fare riferimento alla modalità di lavoro in smart-working, in vista delle misure preventive per l’oramai celeberrimo Coronavirus. Gli organi di stampa, riportando più volte le sue apparizioni, hanno spesso parlato del telelavoro, equiparando e sovrapponendolo in qualche modo alla suddetta modalità. Quali sono allora i punti in comune e le differenze? Con l’intento di chiarirlo facciamo un primo cenno normativo:
“Per telelavoro si intende la prestazione di lavoro eseguita in qualsiasi luogo ritenuto idoneo, al di fuori della sede ordinaria di lavoro, con il prevalente supporto di tecnologie che consentano il collegamento con l’azienda e/o l’amministrazione di appartenenza. Il lavoro a distanza non comporta un mutamento di mansioni, in quanto i contenuti della prestazione rimangono invariati e il dipendente resta inserito nell’organizzazione aziendale”
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“Il lavoro agile o smart working, costituisce una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato – diversa dal cosiddetto telelavoro – stabilita con un accordo tra datore e dipendente, che non prevede vincoli di orario o di luogo di lavoro, e prevede invece la possibilità di usare strumenti tecnologici per l’attività lavorativa. La prestazione si svolge in parte all’interno dell’azienda, in parte all’esterno (in un luogo scelto dal dipendente, non necessariamente la sua abitazione)”
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Entrambe le forme di rapporto lavorativo subordinato tra dipendente e datore di lavoro si servono della tecnologia per agevolare l’attività in diverse condizioni. Agli albori degli anni 70’, il telelavoro venne introdotto in America e poi nel mondo, con l’avvento dei primi computer e della connessione, stravolgendo totalmente le modalità di lavoro preesistenti, permettendo la riduzione del costo del lavoro, il suo efficientamento, la risposta ad alcune esigenze dei dipendenti stessi.
Se il telelavoro è una forma stabile di svolgimento del lavoro in un luogo specifico, così come definito alla stipulazione di un contratto di lavoro, differentemente lo smart-working si caratterizza per una maggiore flessibilità. Ecco che «non prevede vincoli di orario o di luogo di lavoro». Dovunque la persona si trovi, quando voglia, che sia un divano presente in ufficio, sul treno, o da casa, ciò che conta è il risultato finale. L’orientamento delle aziende non ruota più attorno alla quantità di lavoro svolto, ma sempre di più conta la fiducia, la delega e l’orientamento al risultato finale, derivante dal lavoro svolto dal dipendente. Essenzialmente lo smart-working risponde ai nuovi trend che coinvolgono dall’esterno le aziende ed i lavoratori.
Fra questi, l’emergere dei mercati internazionali e i ritmi di lavoro elevati, hanno comportato una compressione temporale nella vita di tutti giorni, generando nuove esigenze di work-life balance, ovvero la ricerca di migliori possibilità di gestione delle responsabilità ripartite tra vita privata e ruoli lavorativi, che finiscono con l’essere confliggenti, in virtù dell’aumento delle richieste lavorative e del sempre minor tempo spendibile per la famiglia.
Se da un lato le potenzialità introdotte dalla digital transformation rendono tutto ciò possibile, non mancano i punti di debolezza. Ripensare il lavoro impone ai manager di ripensare anche alla persona in relazione ad esso.
Nel telelavoro, un problema è legato all’isolamento professionale a causa dell’intero svolgimento del lavoro in un luogo predeterminato esterno all’organizzazione. Nel caso dello smart-working, l’uguaglianza flessibilità-soddisfazione lavorativa dovranno essere verificate. Un ambito di interesse è il tema della gestione dei confini (Boundary Management).
Gli individui non restano inermi al passaggio da un luogo all’altro; creano e consolidano dei confini spaziali e/o mentali, come un modo di organizzare e semplificare la realtà. Questi limiti fanno sì che la persona possa in seguito investire quegli spazi a seconda dell’identità di ruolo che preferisce, con maggiore o minore intensità. I confini geografici, le periodizzazioni storiche, le differenze tra gruppi sociali di diversa etnia, non sono altro che modi di gestire e costruire l’ambiente sociale in relazione alla propria persona. Lo stesso si può dire che accada per i lavoratori: l’identità di ruolo di una segretaria, l’insieme dei suoi modi, del gergo utilizzato, delle modalità relazionali, saranno diverse da quelle che metterà in pratica a casa. Se per alcuni sarà più semplice passare da un’identità ad un’altra, rendendosi più permeabile all’ambiente, per altri risulterà più naturale separare i ruoli. Chi integra, sarà più pronto a svolgere il lavoro da casa congiuntamente agli impegni quotidiani, sul treno, mentre capiterà di chiacchierare occasionalmente o al bar tra un incontro e un altro, sebbene al prezzo di una maggiore confusione di ruolo; chi separa, invece, avrà maggiori costi di “transizione di identità” e maggiore stress nel gestire i due ambiti, probabilmente rendendo di più sul luogo di lavoro in termini di motivazione e performance lavorativa. Concludendo, sebbene le contingenze lo richiedano, occorre che le organizzazioni e gli addetti alla gestione delle risorse umane riflettano sul trade-off tra le caratteristiche della persona e il job design, in ottica di ottimizzazione della performance lavorativa. Quanto può essere immediata ed efficace per il lavoratore e l’azienda l’introduzione di tali pratiche, senza aver preparato un terreno fertile? Quanto lo sarà stato nel contesto italiano?
Psicologo, con esperienza maturata in ambito organizzativo. Ha conseguito la laurea in psicologia del lavoro con una tesi sul work-life balance.
Co-fondatore de Il Controverso, cura la rubrica #SpuntidiPsicologia e scrive di tematiche riguardanti la criminalità organizzata.
"Scrivo perché amo andare a fondo nelle cose"