In difesa del principio di non colpevolezza

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«L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».

Così declama il secondo comma dell’art. 27 della nostra Carta costituzionale. Eppure odiernamente, questo principio, scaturito da menti eccelse, quali quelle formanti l’Assemblea costituente, sembra obliarsi del tutto, di fronte ad una superba alterigia del cosiddetto diritto di cronaca. C’è chi asserisce che il diritto di raccontare sia anch’esso costituzionalmente garantito, nel corpus dell’art. 21, che assorbe forse uno degli irrinunciabili capisaldi della nostra Costituzione: la libertà di manifestazione del pensiero.

Tuttavia, la libera manifestazione del pensiero signoreggia, incontrastata, solo in un giornalismo (ammesso che così possa esser definito) infangante, che ammattisce pur di dare la caccia alle streghe, pur di prodigarsi sotto l’egida di schemi ipocriti di perbenismo. Ne è l’esempio la vicenda che ha coinvolto ieri Angelo Scala, docente presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli.

Accusato di corruzione, falso e induzione indebita, il professore è stato sospeso dall’insegnamento per nove mesi, sebbene abbia negato fin dal primo istante le insinuazioni mosse sul suo conto.

Un certo tipo di stampa, al di fuori di ogni tentativo di osservanza del dettato costituzionale di cui sopra, subitaneamente non ha esitato, con titoli grottescamente magniloquenti e fastidiosamente boriosi, a designare come colpevole l’imputato. Eppure, non è così astruso comprendere che l’avvio di indagini preliminari non corrisponde ad una sentenza di condanna emessa definitivamente, “oltre ogni ragionevole dubbio”, soprattutto se si contempla che nel nostro ordinamento esistono ben tre gradi di giudizio. E quei giornalai, che si cullano nell’alveo di accuse infamanti, di parole taglienti come lame affilate, che si inerpicano sulla manzoniana colonna infame, che non si curano di quanto una semplice supposizione possa marchiare per sempre l’onore di qualcuno, trattarlo a mo’ di appestato, quegli stessi giornalai evidentemente ignorano che nel processo penale, fino all’ultimo, rimbomba l’espressione “ipotesi di reato”. E che, per l’appunto, si tratta di una mera ipotesi, non di una perentoria certezza. Per di più, se si mette a fuoco il fatto che il principio di presunzione di innocenza sia gridato anche all’articolo 6, n. 2 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali:

“Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”;

o anche all’articolo 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: “Ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Il rispetto dei diritti della difesa è garantito ad ogni imputato”.

Malgrado ciò, in Italia sembra che si sia al cospetto della materializzazione di una vera e propria nemesi nei confronti di un passato forse troppo indulgente, come avvenne nel caso giudiziario di Mani pulite. Ma questo non legittima, per nessuna ragione al mondo, che un qualunque indagato sia esposto al pubblico ludibrio, alla gogna giudiziaria che non fa economia di nessuno. Lo documenta la vicenda processuale di Enzo Tortora, ingiustamente incriminato da camorristi e poi, guarda un po’, rivelatosi innocente.

Dovrebbe essere imperativo diversificare la verità processuale da quella fattuale: spesso non collimano, e sulla vittima, che rievoca tanto una “vita da scarto” di baumaniana memoria, persisterà per sempre questo deplorevole suggello.

Non è cabalistico affermare che ormai il preziosissimo principio di non colpevolezza è tale solo in scripta, e che certa carta straccia se ne infischia altamente della sua esistenza.

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